lunedì 20 febbraio 2012

Tardi ti ho amato,
bellezza così antica e così nuova,
tardi ti ho amato.
Tu eri dentro di me, e io fuori.
E là ti cercavo.
Deforme, mi gettavo
sulle belle forme delle tue creature.
Tu eri con me, ma io non ero con te.
Mi tenevano lontano da te
quelle creature che non esisterebbero
se non esistessero in te.

Mi hai chiamato,
e il tuo grido ha squarciato la mia sordità.
Hai mandato un baleno,
e il tuo splendore
ha dissipato la mia cecità.
Hai effuso il tuo profumo;
l'ho aspirato e ora anelo a te.
Ti ho gustato,
e ora ho fame e sete di te.
Mi hai toccato,
e ora ardo dal desiderio della tua pace.




(S. Agostino, Confessioni 10.27.38)

venerdì 10 febbraio 2012

Ildefonso Schuster: un pastore che si è formato alla scuola di san Benedetto

D. Luigi Crippa osb*
 


Tutti coloro che hanno potuto conoscere, sia pure da lontano e occasionalmente,  il Card. Ildefonso  Schuster, sono  concordi  nell’attestare  che  la
fisionomia monastica-benedettina  costituisce la  caratteristica fondamentale
della sua personalità. “Il Card. Schuster portò sempre e prevalentemente lo
spirito di monaco” sostiene il Card. Roncalli. Nella sua ben ponderata deposizione, il Card. Siri afferma con efficacia: “Quello è un uomo che vive sempre in monastero”. Gli fa eco S.E. Gremigni, vescovo di Novara: “Quest'uomo
è rimasto monaco a Milano come lo fu a S. Paolo, a Roma”. Ed il notissimo
docente e cofondatore della Cattolica, Mons. Francesco Olgiati, rileva: “Per me
il Servo di Dio è un Cardinale benedettino e sottolineerei quest’ultima parola”.
L’unanimità di giudizio su questo aspetto primario della personalità del
nostro Beato è estremamente importante anche perché ci offre la chiave di lettura appropriata per comprendere rettamente sia la straordinaria ed avvincente
vita di unione pressoché continua con Dio e sia la sua pluriforme, immane,
eroica attività pastorale.
Noi, ora, non dobbiamo qui illustrare questi due aspetti qualificanti la
santità del Card. Schuster, ma solo richiamare che essi sono il frutto di una
fedeltà sempre più perfetta e totale alle esigenze della sua professione di monaco benedettino e che si riassumono poi, come insegna S. Benedetto alla scuola
del Vangelo, nella pratica costante, convinta e senza riserve del duplice precetto dell'unica carità soprannaturale. Dunque amore di Dio e insieme amore del
prossimo (cf RB 4,1).

* Già Abate dell’Abbazia S. Maria del Monte in Cesena e Assistente religioso della Federazione italiana dei
Monasteri delle monache Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento. Pubblichiamo il secondo dei 4 contributi dedicati a Schuster nel XV anniversario della sua beatificazione


Avvicinandosi al termine della sua vita, il Card. Schuster potrà, al riguardo, forte anche della sua personale e profonda esperienza spirituale, mettere in
guardia dal pericolo di dare soverchio peso a leggi e osservanze, pur necessarie
ma sempre subordinatamente alla legge suprema della carità evangelica. “È
Cristiano, è Santo, chi ama Dio, ed il prossimo come se stesso, con tutto il
cuore,  con  tutta  l’anima,  con  tutte  le forze. Lo ricorda  esplicitamente san
Benedetto all’inizio del suo Sintagma di perfezione. Il resto è glossa”.
Ma “l’officina” in cui lo Schuster imparò ad essere monaco benedettino
e dunque a crescere e nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo è l'ambito
del monastero cassinese di S. Paolo in Roma dove, com’è noto, entrò nel 1891
undicenne ed uscì nel 1929 con la sua nomina a card. Arcivescovo di Milano.
Nei trentotto anni della sua permanenza nella famiglia monastica paolina, sono
da considerarsi decisivi quelli dal 1895 al 1904. È in quel decennio infatti che
si forma, sostanzialmente, quella straordinaria personalità monastica-benedettina che esploderà poi in tutta la sua ricchezza e bellezza nei venticinque anni
di episcopato milanese. Certo, a formare quel “benedettino pienamente riuscito” che è il beato Ildefonso Schuster, hanno concorso, con la grazia di Dio,
molti fattori e molte persone. Ma tra queste ultime, due hanno avuto un ruolo
e un influsso determinanti: D. Placido Riccardi (1844-1915; beatificato nel
1954) e l'abate Bonifacio Oslaender (1936-1904). 
Dalla vita di d. Placido - conosciuto per la prima volta a Farfa nell'agosto del 1895 - il giovane Schuster apprenderà soprattutto come si fa in concreto ad amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze. La giornata di d. Placido
è un intreccio mirabile di preghiera e penitenza. Poiché ama Dio con tutto se
stesso, d. Placido gli riserva ore ed ore di ascolto e di colloquio.
Pregava di giorno e pregava di notte; pregava in chiesa e in cella; pregava dappertutto e sempre. E pregava bene. Le testimonianze di chi l’ha conosciuto sono concordi su questo punto. A. Schuster, giovinetto di quindici anni
ma già preso dal problema di Dio e del suo amore, si lascia totalmente conquistare dall’esempio umile e forte di quel suo confratello che proprio perché
ama Dio con tutto se stesso è divenuto soprattutto un orante. Così si darà ad
imitarlo con decisione e costanza. A tal punto che la preghiera diverrà, anche
nella vita di Schuster, la caratteristica più eminente ed attraente. Quanti milanesi accorreranno in Duomo, alla Messa capitolare della domenica cui di norma
assisteva l'Arcivescovo,  per  ammirarlo nell’atto sublime del  colloquio  con
Dio! Con la preghiera la penitenza. È ben nota l'austerità della sua tavola, del
suo guardaroba, della sua abitazione, così come le varie forme di penitenza corporale in particolare i digiuni e l’uso del cilizio. Ebbene, anche in questo, il
modello - spesso “copiato” alla lettera - è il suo d. Placido. La biografia che lo
Schuster ha scritto ne è la prova migliore.
Dall'abate Oslaender, stimato sempre dallo Schuster come il suo maestro
per eccellenza di vita monastica-benedettina, imparerà soprattutto cosa significa e cosa comporta amare i fratelli con amore casto cioè soprannaturale e disinteressato. La puntualità, la signorilità del tratto, del portamento e della parola, l’umiltà e mitezza nei rapporti vicendevoli, il senso del servizio generoso
fino  al perdono  eroico, tutte forme  concrete  e  alte di  carità fraterna  che lo
Schuster imparerà dalla vita e dal paterno magistero dell’abate Bonifacio e che
eserciterà,  con  crescente  perfezione, sotto  la sua  amabile  e sicura  guida.
Potremmo dire, in breve, che l’abate Oslaender ha aiutato il giovane cenobita
D. Ildefonso a fare esperienza del mistero della vita comune e quindi della
Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Questa esperienza, lo sappiamo, caratterizzerà
l’episcopato del Card. Schuster e la sua stessa santità che conoscerà pure le
vette della mistica. Come lascia intuire questa sua confidenza ad un amico fidato. “Quale privilegio - dirà a D. Calabria - è quello di soffrire per la Chiesa!
Dio lo concede solo ai suoi più intimi amici”. Tra i quali va annoverato il nostro beato. “Ringrazio Dio che mi ha concesso il gran dono di soffrire per Lui
e per la Chiesa”.
LETTURA
IL CARD. SCHUSTER RICORDA IL SUO MIGLIOR MAESTRO: D. BONIFACIO OSLAENDER 

1. “Quando nella primavera del 1904 celebrai le mie primizie sacerdotali,
ricevei in dono dal mio abbate un bel Crocifisso di madreperla, di quelli che
vengono  dalla  Terra  Santa.  Siccome  temevo  di  attaccarvi  il  cuore,  dopo
qualche giorno glielo riportai, insieme con altri piccoli doni ricevuti per quella circostanza. 
Quel distacco mi costò alquanto; ma io ringrazio il Signore d'avermi dato
per maestro di vita monastica un'anima forte e mite della tempra dell'abate don
Bonifacio Oslaender. Il suo  primo  discepolo  era stato  il  Servo  di Dio  don
Placido Riccardi. Il frutto raccomanda l'albero”.
(S.BENEDICTI ABB.ROM., Regula Monasteriorum.Testo, introduzione, commento  e  note  del  Card.A.Ildefonso  Schuster Arcivescovo  di Milano,  Pia  Società
S.Paolo 1945, pp. 323-324).

2. “Il miglior maestro dei novizi che io abbia conosciuto nei miei anni
giovanili, è stato don Bonifacio Oslaender, divenuto poi abbate di San Paolo.
Ma anche in questo altissimo ufficio, egli rimase sempre l'antico maestro dei
novizi, ed io gli debbo per questo una grande gratitudine.
Quando era ancora maestro di noviziato del Servo di Dio Don Placido
Riccardi, per umiliare questo e per confondere contemporaneamente la boria
giovanile d’un altro bravo novizio dal bollente sangue abruzzese ‘forte e gentile’,  Don  Bonifacio  aveva  ordinato  che  il  Riccardi  ogni  giorno,  dopo  la
refezione meridiana, facesse le sue esercitazioni d'organo. All'ufficio di tiramantici il maestro destinò proprio Don Giovanni Del Papa, quel medesimo che
poi succedé a Don Bonifacio sulla Cattedra Abbaziale di san Paolo.
Moltissimi anni dopo, lo stesso D. Giovanni mi descriveva che cosa mai
costasse ogni giorno a lui ‘abruzzese’ quell'insignificante mestiere di tiramantici, mentre il Servo di Dio Placido Riccardi sentivasi a sua volta in estremo
imbarazzo per l'incomodo quotidiano che egli suo malgrado, doveva arrecare
all’amico ed al compagno.
Con questo sistema Don Bonifacio, per dirla con san Filippo Neri, soleva ‘mortificare la razionale’ e formava i caratteri.
Era tanta la stima che l'abbate Pescetelli di san Paolo nutriva per lui, che
nei primi anni della fondazione di Beuron, essendosi delineate delle divergenze  di  vedute  tra  i  due fratelli Mauro  e  Placido Wolter,  l'abbate  aveva  già
divisato di richiamare a san Paolo uno dei due, sostituendolo poi a Beuron per
mezzo di Don Bonifacio.
Ho  avuto  questo  particolare  dal  medesimo  abbate  Don  Bonifacio
Oslaender”.
(Regula Monasteriorum, cit., pp. 350-351)

3. “Un giorno, l'abbate Bonifacio Oslaender a S. Paolo di Roma così terminò una sua conferenza capitolare: ‘Anche i monaci possono cadere nell'inferno, e quei che vi cadono, generalmente vi vanno per l'infrazione del voto di
santa povertà’. Io allora ero ragazzo; ma dopo quasi sessant'anni, ancora mi
ricordo dell'effetto di quelle parole”. 
(Un pensiero quotidiano sulla Regola di S.Benedetto, Tipografia S.Benedetto,
Viboldone (MI) 1951, v.2, p. 67).

4. “Un  anno, la vigilia della Conversione di S.Paolo, pregai l'Abbate
Bonifacio, già Maestro del Ven. Placido Riccardi, a permettere che si comunicasse all'Osservatore Romano l'orario delle funzioni del giorno seguente.
Mi rifiutò il permesso e mi disse: ‘ Figlio mio, i nostri Padri hanno sempre amato il nascondimento ed il silenzio, senza correre dietro alla pubblicità,
come si usa fare ora. Stiamocene con Dio, noi monaci!’ ”. 
(Un pensiero quotidiano, cit., vol. 2, p. 268).

5. “Mi faceva rilevare, quando io ero giovane, l'abbate Bonifacio, che
30santi ce ne sono facilmente dovunque. San Giuseppe da Copertino nei suoi ratti
giunse ai più alti gradi di vita mistica, tra confratelli che sfioravano appena il
pavimento del convento”.

6. “Rammento  ancora  la  lezione  che  mi  diede  un  giorno  l'abbate
Bonifacio di san Paolo, quando io ero appena chierico.
Dovevamo accompagnarlo dall'appartamento in Chiesa, per l’ora di adorazione durante le SS. Quarantore.
Alle sedici in punto io ero sulle soglie delle stanze abbaziali, dove egli
già parato ci attendeva. Appena arrivati, mi disse:
‘Voi  giungete  all'ora  degli  impiccati,  che  arrivano sempre  all'ultimo
momento!’.
Non per nulla san Benedetto scriveva: ‘tali sollicito fratri iniungat hanc
curam’. Chi è sollecito ha il fuoco sotto le scarpe”. 
(Un pensiero quotidiano, cit., vol. 4, pp. 241-242).
7. “La diversità delle età, dei caratteri, dell'educazione, del grado di virtù
spiegano sufficientemente  come,  anche  nella  vita  di  comunità, la  pazienza
possa raccogliere ogni giorno insieme con Rut Moabita molte elette spighe di
virtù. Che fare in tali casi? Quello che un giorno ci predicava nel Capitolo l’abbate  don  Bonifacio  Oslaender,  il  maestro  del  Servo  di  Dio  don  Placido
Riccardi.
Nelle inevitabili piccole contese, quegli ha ragione che per primo dimanda scusa al fratello e restaura la fraterna pace. San Benedetto è assai esigente
su questo argomento. Egli lo ha già avvertito sin dal Prologo della Regola: procederà paululum restrictius...propter emendationem vitiorum, vel conservationem caritatis.
Giunge finalmente il momento opportuno per dimostrarlo. Ragione o
torto non appena l'inferiore comprende che l'animo del suo maggiore è alquanto commosso a suo riguardo, per fare pace non attenda neppure che giunga il
momento della Messa in cui il diacono dirà: offerte vobis pacem. Prostrato in
terra, l'umile monaco offrirà subito soddisfazione al superiore, né si leverà di
lì, sin tanto che l'altro con la sua benedizione non verserà il balsamo della cristiana carità su quella leggiera escoriazione del cuore. Chi si ostinerà a non
farlo, con ciò stesso indica che il monastero non è il luogo per lui. Se si ostina
nel rancore, perderà facilmente la grazia della vocazione, ed allora se non se ne
va da sè, bisognerà mandarlo via. Così c’insegnava l’abbate Bonifacio”.
(S. BENEDICTI ABB. ROM., Regula Monasteriorum, cit., pp. 428-429).

SANTA SCOLASTICA 480-543 ca



Estratto da "Monachesimo benedettino femminile" a cura di Anna Maria Cànopi 
- edito dall'Abbazia San Benedetto - Seregno (MI)




«Poté di più colei che amò di più»
Dialoghi, 11, 33

La sua sorella di nome Scolastica, consacrata al Signore onnipotente fin dalla più tenera età, soleva fargli visita una volta all'anno. L'uomo di Dio scendeva ad incontrarla in una dipendenza del monastero, non molto lontano dalla porta. Un giorno, dunque, come di consueto ella venne, e il suo venerabile fratello, accompagnato da alcuni discepoli, scese da lei. Trascorsero l'intera giornata nella lode divina e in colloqui spirituali, e quando ormai stava per calare l'oscurità della notte, presero cibo insieme. Sedevano ancora a mensa conversando di cose sante, e ormai s'era fatto tardi, quando la monaca sua sorella lo supplicò dicendo: «Ti prego, non lasciarmi questa notte; rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste». Ma egli le rispose: «Che dici mai, sorella? Non posso assolutamente trattenermi fuori dal monastero».
Il cielo era di uno splendido sereno: non vi si scorgeva neppure una nuvola.
Udito il rifiuto del fratello, la monaca pose sulla mensa le mani intrecciando le dita e reclinò il capo su di esse per invocare il Signore onnipotente. Quando rialzò la testa, si scatenarono tuoni e lampi cosi violenti e vi fu un tale scroscio di pioggia, che né il venerabile Benedetto, né i fratelli che erano con lui poterono metter piede fuori della casa in cui si trovavano. La vergine consacrata, reclinando il capo sulle mani, aveva sparso sulla mensa un tale fiume di lacrime da volgere in pioggia, con esse, il sereno del cielo. E la pioggia torrenziale non seguì di qualche tempo la sua preghiera, ma fu ad essa simultanea, a tal punto che mentre ancora la donna alzava il capo dalla tavola, già scoppiava il tuono; tutto avvenne nel medesimo istante; col sollevare del capo la pioggia incominciò a scrosciare.
L'uomo di Dio, vedendo che in mezzo a tali lampi, tuoni e tanta inondazione d'acqua non poteva affatto ritornare al monastero, cominciò a rammaricarsene e, rattristato, le disse:
«Dio onnipotente ti perdoni, sorella. Che hai fatto?». Ma ella rispose: «Vedi, io ti ho pregato, e tu non hai voluto ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e torna al monastero».
Ma egli, non potendo uscire dal coperto, fu costretto a rimanere suo malgrado là dove non aveva voluto fermarsi di sua spontanea volontà.
Passarono cosi tutta la notte vegliando e saziandosi reciprocamente di sante conversazioni concernenti la vita dello spirito.
Per questo ti avevo detto che vi fu qualcosa che l'uomo di Dio, pur volendolo, non poté ottenere. Se infatti consideriamo la sua intenzione, appare in tutta evidenza il suo desiderio che il cielo si mantenesse sereno come quando era sceso dal suo monastero. Ma contrariamente a quanto desiderava, egli si trovò davanti a un miracolo operato per la potenza di Dio dal cuore ardente di una donna. E non c'è da meravigliarsi se in quell'occasione poté di più la sorella, che desiderava trattenersi più a lungo con lui. Secondo la parola di Giovanni, infatti, Dio è amore; per giustissimo giudizio, dunque, poté di più colei che amò di più (SAN GREGORIO MAGNO, Dialoghi, libro II, c. 33).
Il volto di santa Scolastica è per sempre scolpito da queste ultime parole del racconto di san Gregorio Magno: «... quia enim juxta Johannis vocem, Deus caritas est, justo valde judicio illa plus potuit, quae amplius amavit». Poté di più, presso Dio, colei che amò di più. Amore e preghiera e desiderio del Cielo costituiscono il fascino spirituale di questa donna che, secondo la tradizione, fu sorella gemella del grande patriarca dei monaci d'Occidente, Benedetto da Norcia.
«Consacrata a Dio onnipotente fin dall'infanzia», la troviamo - al tramonto della sua santa esistenza - in un monastero di sanctimoniales nelle vicinanze di Montecassino, all'ombra, quindi, del grande fratello di cui certamente osservano la Regola.
Null'altro sappiamo al di fuori di questo e di quanto san Gregorio Magno dice nel capitolo 34° del secondo libro dei Dialoghi, cioè che dopo tre giorni da quel prolungato incontro (c. 33), san Benedetto, stando alla finestra della sua cella, vide l'anima della sorella Scolastica, in forma di colomba, penetrare nelle altezze dei cieli.
L'esordio della vita e della vocazione di Scolastica lo si può, quindi, rintracciare seguendo le orme del fratello. Se veramente furono gemelli anche per nascita naturale, quale sarà stato il loro crescere insieme nell'ambito della famiglia, in quella cittadina umbra, dolcemente adagiata nel verde e tutta pervasa di religioso senso della vita?
Nata verso il 480, Scolastica è - come il fratello - fin dalla fanciullezza attratta verso la vita interamente consacrata a Dio. E' probabile che la risoluta partenza di Benedetto l'abbia spinta a seguirlo in una forma di vita consona alla sua indole e al suo ideale cristiano. Perciò l'indistruttibile legame di sangue esistente tra lei e Benedetto divenne ancor più forte e definitivo nella comune vocazione che li rendeva uno in Cristo per l'eternità.
La nativa Norcia, dunque, la famiglia satura di fede e aperta ai progetti di Dio plasmarono l'animo di Scolastica, preparandola a quell'austera e insieme serena vita monastica che san Benedetto propone con la sua Regola ai più generosi seguaci di Cristo.
Per questo non ci sembra arbitrario fare in certo modo una rilettura della «santa Regola» attraverso la figura stessa di santa Scolastica quale traspare dall'unico episodio - unico, ma assai emblematico! - che della sua vita ci è rimasto.
Notiamo anzitutto la «consuetudine» dei due fratelli di vedersi una volta all'anno. Forse - e ci piace pensarlo - nel tempo pasquale per la gioia di incontrarsi nella luce del Signore risorto.
In quest'ultimo incontro, la sorella è quanto mai avida di stare con il fratello per parlare delle gioie del cielo; ma deve premere su Benedetto ligio alla norma che prevedeva il rientro in monastero prima di sera. Scolastica compie un prodigio in forza dell'intensità del suo amore e della sua preghiera. E' un miracolo che si iscrive sotto il segno della gratuità, quasi come quello ottenuto da Maria alle nozze di Cana, per prolungare la gioia conviviale.
San Benedetto nella Regola per i monaci dà il primato alla ricerca di Dio - Si revera Deum quaerit...(Se veramente cercano Dio) (RB 5 8, 7), all'amore di Cristo - Nihil amori Christi praeponere(Nulla anteporre all'amore di Cristo) (RB 4, 2 1), e conseguentemente alla preghiera - Nihil Operi Dei praeponatur (Niente venga anteposto all'Opera di Dio) (RB 43, 3). Scolastica realizza pienamente la sua vita in questo senso. Giunta ormai in vista della meta, altro non desidera che Dio, la comunione con lui nella luce del suo Regno. E' di questo che desidera ardentemente parlare con il santo fratello supplicandolo: «Ti prego... rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste».
Non stava forse anche scritto nella Regola: «Desiderare con tutto l'ardore dell'animo la vita eterna»? (RB 4, 46). Il forte affiato escatologico che caratterizza la spiritualità della Regola benedettina raggiunge in questa santa monaca la massima intensità. Traspare inoltre da questo unico episodio la consuetudine che Scolastica aveva alle sante veglie di meditazione e di preghiera. Proprio la preghiera, sgorgante da un cuore puro e ardente, è la forza con la quale la sorella vince.. la sfida con il fratello, più attento all'austera disciplina. Ma anche questa, anche la preghiera di Scolastica è la realizzazione splendida e fedele di quanto Benedetto ha proposto nella sua Regola: «... non dobbiamo forse elevare con tutta umiltà e sincera devozione la nostra supplica a Dio, Signore dell'universo? E rendiamoci ben consapevoli che non saremo esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alle lacrime» (RB 20, 2-3). Con l'intensità della sua supplica e l'abbondanza delle sue lacrime, Scolastica ottiene dal Signore dell'universo un repentino mutamento di atmosfera. La pioggia scrosciante impedisce a Benedetto di ripartire e dona a Scolastica la gioia di rimanere più a lungo con lui per pregustare, nella contemplazione, le gioie del cielo.
Per essere pervenuta a tale intensità di vita interiore e di preghiera da poter essere esaudita dal Signore all'istante e oltre misura, la santa sorella del patriarca dei monaci aveva certamente compiuto un generoso e alacre cammino di fede, di umiltà, di povertà, di obbedienza, di carità, di essenzialità e di unificazione interiore. Aveva vissuto fedelmente la vocazione monastica secondo le direttive della Regola di Benedetto e «per ducatum evangelii» si era lasciata condurre là dove l'unica legge è quella dello Spirito che è amore e libertà.
Colpisce, nel racconto dei Dialoghi, la personalità di Scolastica. E' veramente donna, con tutte le caratteristiche della femminilità: dolcezza e affettività, costanza e persino audacia nell'intento di ottenere quanto desidera; ma presenta anche una vena di simpatica ilarità, quando dal fiume di lacrime passa al radioso sorriso per il miracolo avvenuto: «Vedi - risponde al fratello rammaricato per il temporale - io ti ho pregato e tu non hai voluto ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e torna al monastero». E' una rivincita che non dispiace certamente a Benedetto, poiché proprio lui le aveva insegnato a rivolgersi - nelle difficoltà - a Colui cui tutto è possibile (cfr. Prologo 4, 4 1; RB 68, 5). Per coloro che servono il Signore con totale dedizione si realizza la promessa: «I miei occhi saranno su di voi, le mie orecchie si faranno attente al vostro grido, e ancor prima che mi invochiate, dirò: Eccomi!» (Prol. 18). Dio obbedisce prontamente a coloro che gli hanno totalmente sottomessa la loro propria volontà.
Scolastica ha consumato la sua esistenza in assoluta fedeltà alla vocazione che le era sbocciata nel cuore fin dall'infanzia; ora, giunta alla piena maturità, dimostra di avere conservato la stessa fede semplice e sicura in un animo fresco come polla d'acqua sorgiva.
In lei si incarna splendidamente la tensione escatologica che percorre tutta la Regola benedettina. Dire Scolastica è immergere lo sguardo nelle azzurre «misteriose profondità del cielo» dove la sua anima, sotto la candida sembianza della colomba, è penetrata, attratta dalla forza dell'Eterno Amore. Così la poté contemplare - con quali occhi? - il santo padre Benedetto mentre pregava affacciato alla finestra della sua cella, specola del cielo. L'itinerario tracciato dalla Regola si era concluso per Scolastica con il «miracolo» segno della «perfetta carità» raggiunta. Carità verso Dio ardentemente desiderato, e carità verso i fratelli teneramente amati (cfr. RB 72). La preghiera - subito esaudita dal Signore - appare come il puro ed efficace linguaggio dell'Amore.
Non è forse questo il messaggio essenziale che ci viene, ancora oggi, dalla santa sorella del patriarca dei monaci d'Occidente? Perché rammaricarci di non avere di lei altre notizie per poterne scrivere una biografia? Tutto quello che ella visse prima della «santa notte» del fraterno colloquio e dell'ora del suo altissimo «volo» non poteva che essere cammino decisamente orientato alla meta, così come tutto il lavoro della radice, dello stelo e delle foglie è ordinato allo sbocciare del fiore.
Scolastica, la prima monaca benedettina, è una docilissima «scolara» alla scuola del divino servizio nella quale apprende la sapienza del cuore a tal punto da... vincere il Maestro ed arrivare prima là dove insieme, correndo, erano diretti.
San Gregorio riferisce che Benedetto volle deporre il corpo della sorella «nel sepolcro che aveva preparato per sé» sulla santa montagna di Cassino. «E così, essendo sempre stati un solo spirito in Dio, neppure i loro corpi furono separati nella sepoltura» (Dialoghi, II, 34). La comunione dei Santi inizia sulla terra, nel tempo, e si compie in cielo, nell'eternità.
Chi sale oggi - dopo quindici secoli di storia -, alla maestosa abbazia di Montecassino, non può non essere preso da un fremito di commozione nel trovarsi davanti alla tomba dei Santi fratelli che stanno all'origine di una numerosa stirpe di cercatori di Dio.


(voce di A. Lentini, in Bibliotheca Sanctorum, XI, Roma 1968, col. 742-749; B. Fiore, Santa Scolastica, Montecassino 1981).

sabato 28 gennaio 2012

La Preghiera del cuore
nella tradizione della Chiesa

La formula
La preghiera di Gesù si dice in questo modo: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me, peccatoreIn origine, la si diceva senza la parola peccatorequesta è stata aggiunta più tardi alle altre parole della preghiera. Tale parola esprime la coscienza e la confessione del nostro stato di peccato


Istituita da Cristo
Dopo l'ultima cena, il Signore Gesù Cristo diede ai suoi discepoli dei comandamenti e dei precetti sublimi e definitivi; fra questi, la preghiera nel suo Nome. Egli ha presentato questo tipo di preghiera come un dono nuovo e straordinario, d'inestimabile valore. Gli apostoli conoscevano già in parte la potenza del Nome di Gesù: per suo mezzo guarivano le malattie incurabili, sottomettevano i demoni, li dominavano, li legavano e li cacciavano. E' questo Nome potente e meraviglioso che il Signore comanda di utilizzare nelle preghiere, promettendo che agirà con particolare efficacia. "Qualunque cosa chiederete al Padre nel mio Nome", dice ai suoi apostoli, "la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio Nome, io la farò" (Gv 14,13-14). "In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio Nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio Nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16,23-24).
La pratica degli apostoli
Nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere noi vediamo la fiducia senza limiti che gli apostoli avevano nel Nome del Signore Gesù e la loro infinita venerazione nei suoi confronti. E' per suo mezzo che essi compivano i segni più straordinari. Certamente non troviamo nessun esempio che ci dica in che modo essi pregassero facendo uso del Nome del Signore, ma è certo che lo facevano. E come avrebbero potuto agire diversamente, dal momento che tale preghiera era stata loro consegnata e comandata dal Signore stesso, dal momento che questo comando era stato loro dato e confermato a due riprese? Se la Scrittura tace a questo proposito, è unicamente perché questa preghiera era di uso comune: non v'era dunque nessuna necessità di menzionarla espressamente, dato che era ben nota e che la sua pratica era generale.
Un'antica regola
Che la preghiera di Gesù sia stata largamente conosciuta e praticata risulta chiaramente da una disposizione della chiesa che raccomanda agli analfabeti di sostituire tutte le preghiere scritte con la preghiera di Gesù. L'antichità di tale disposizione non lascia spazio a dubbi. In seguito, essa fu completata per tener conto della comparsa all'interno della chiesa di nuove preghiere scritte. Basilio il Grande ha steso quella regola di preghiera per i suoi fedeli; così, certuni gliene attribuiscono la paternità. Senz'altro, però, essa non è stata né creata né istituita da lui: egli si è limitato a mettere per iscritto la tradizione orale, esattamente come ha fatto per la stesura delle preghiere della liturgia. Quelle preghiere, che esistevano a Cesarea già fin dai tempi apostolici, non erano scritte, ma si trasmettevano in forma orale, allo scopo di proteggere quel grande atto liturgico dai sacrilegi dei pagani.
I primi monaci
La regola di preghiera del monaco consiste essenzialmente nell'assiduità alla preghiera di Gesù. E' sotto questa forma che tale regola viene data, in maniera generale, a tutti i monaci. In questa regola si parla della preghiera di Gesù allo stesso modo in cui si parla della preghiera domenicale, del salmo 50 e del simbolo della fede, cioè come di cose universalmente conosciute e accettate. Quando Antonio il Grande, che visse fra il III e il IV secolo, esorta i discepoli ad esercitarsi con il più grande zelo nella preghiera di Gesù, ne parla come di qualcosa che non ha bisogno del minimo chiarimento. Le spiegazioni relative a questa preghiera apparvero più tardi, a mano a mano che se ne perdeva la conoscenza viva. Così, un insegnamento dettagliato sulla preghiera di Gesù fu dato dai Padri del XIV e XV secolo, allorché la sua pratica prese a scomparire anche fra i monaci.
Testimonianze indirette
Nei documenti dei primi secoli del cristianesimo pervenuti fino a noi, la preghiera nel Nome di Gesù non è trattata a parte, ma solo in connessione con altri temi.
Nella Vita di Ignazio Teoforo, vescovo di Antiochia, che ricevette la corona del martirio a Roma sotto l'imperatore Traiano, leggiamo quanto segue: “Mentre lo si conduceva per essere consegnato alle bestie feroci, egli aveva incessantemente il Nome di Gesù Cristo sulle labbra; allora i pagani gli chiesero per quale motivo pronunciasse continuamente quel Nome. Il santo rispose che aveva il Nome di Gesù Cristo impresso nel cuore e che non faceva altro che confessare con la bocca colui che sempre portava nel cuore." Il santo martire Ignazio fu davvero, sia nel nome che nella vita, un 'Teoforo' (nome che in greco significa 'Portatore di Dio'), perché portava sempre nel cuore il Cristo-Dio, impresso dalla meditazione continua del suo spirito. Ignazio fu discepolo del santo apostolo ed evangelista Giovanni ed ebbe nella sua infanzia il privilegio di vedere il Signore Gesù Cristo.
La chiesa primitiva
Non v'è dubbio che l'evangelista Giovanni insegnò la preghiera di Gesù a Ignazio e che questi, in quel periodo fiorente del cristianesimo, la praticava al pari di tutti gli altri cristiani. In quel tempo tutti i cristiani imparavano a praticare la preghiera di Gesù: anzitutto per la grande importanza di questa preghiera, quindi per la rarità e il costo elevato dei libri sacri ricopiati a mano e per il numero ridotto di quanti sapevano leggere e scrivere (gran parte degli apostoli erano analfabeti), infine perché questa preghiera è di facile uso.
Declino progressivo
Uno scrittore del V secolo, Esichio di Gerusalemme, si lamenta già che la pratica di questa preghiera è andata fortemente in declino fra i monaci. Col tempo, tale declino si accentuerà ulteriormente; così, i santi Padri con i loro scritti si sforzarono di incoraggiare questa pratica. L'ultimo in ordine di tempo a scrivere su questa preghiera fu il beato staretzSerafim di Sarov. Lo staretz non redasse lui stesso le Istruzioniche apparvero sotto il suo nome, ma esse furono messe per iscritto, a partire dal suo insegnamento orale, da uno dei monaci che stavano sotto la sua direzione; esse portano chiaramente il segno di un'ispirazione divina.  Ai nostri giorni, la pratica della preghiera di Gesù è quasi abbandonata da coloro che fanno vita monastica.
Il potere del Nome
La forza spirituale della preghiera di Gesù risiede nel Nome del Dio-Uomo, il nostro Signore Gesù Cristo. Benché siano molti i passi della sacra Scrittura che proclamano la grandezza del Nome divino, tuttavia il suo significato fu spiegato con grande chiarezza dall'apostolo Pietro dinanzi al sinedrio che lo interrogava per sapere "con quale potere o in nome di chi" egli avesse procurato la guarigione a un uomo storpio fin dalla nascita. "Allora Pietro, pieno di Spirito santo, disse loro: 'Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a voi tutti e a tutto il popolo d'Israele: nel Nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati"' (At 4,7-12) Una tale testimonianza viene dallo Spirito santo: le labbra, la lingua, la voce dell'apostolo non erano che strumenti dello Spirito.
Un altro strumento dello Spirito santo, l'apostolo dei gentili, fa una dichiarazione simile. Egli dice: "Infatti, chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvato" (Rm 10,13). "Gesù Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra" (Fil 2,8-10).
Hanno detto di essa i Monaci che l'hanno praticata

È preghiera pura la "preghiera dell'ardore", fitta di orazioni "veloci e veementi, pure e fervide come carboni di fuoco",  un grido potente (Eb 5,7) che sale dal profondo del cuore, congiunto all'umiltà che [procede] dalla potenza della gioia", da cui "l'uomo è umiliato nei suoi pensieri fino agli abissi" (Isacco di Ninive: Sui santi fremiti)
"Un'orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata,  ineffabile". Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi di accoglierla. (Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci).


venerdì 27 gennaio 2012

I PADRI DELLA CHIESA

I. NOZIONE.

Il nome di Padri è di origine orientale. Gli antichi popoli d'Oriente, infatti, onoravano con questo appellativo i maestri, considerati come autori della vita intellettuale, originata dal loro insegnamento. In tale senso i discepoli delle scuole profetiche furono denominati filii prophetarum, e il loro maestro fu detto Pater (I Reg. 10, 12; 1 Sam. 40, 35).
Nella Chiesa primitiva, con questo nome vennero designati i vescovi, i quali, appunto perché ministri dei Sacramenti e depositari del patrimonio dottrinale della Chiesa, erano ritenuti generatori di quella vìta in Cristo di cui parla S. Paolo nel testo citato (cf. Martyrium Polycarpi, 12, 2; Acta Cypriani, 3, 3). A partire dal sec. IV, quando i vescovi primitivi incominciarono a essere considerati testimoni autorevoli della tradizione e giudici nelle controversie dogmatiche, si valutò soprattutto l'autorità dottrinale, e il nome di Padri si restrinse agli assertori della fede, che avevano lasciato testimonianza scritta. Ben presto però questo titolo si estese anche ai non vescovi per opera di S. Agostino, il quale citò a testimone della dottrina cattolica circa il peccato originale il contemporaneo S. Girolamo, semplice prete (Contra Iul., 1, 34; Il, 36). Però non tutti gli scrittori ecclesiastici erano atti a testimoniare la fede della Chiesa, essendo taluni caduti in gravi errori. Perciò gli scrittori ecclesiastici antichi vennero distinti in due categorie; quelli riconosciuti dalla Chiesa come testimoni della fede, e quelli che non lo erano. Il primo esempio di tale distinzione si trova nella decretale De libris recipiendis et non recipiendis del sec. VI, che va sotto il nome di papa Gelasio e che, per conseguenza, costituisce il più antico catalogo di scrittori cristiani riconosciuti come Padri della Chiesa.

Tenendo conto delle varie determinazioni a cui andò soggetto questo appellativo, quattro elementi entrano a formarne il concetto: 
  1. a) dottrina ortodossa : quali custodi infatti della tradizione ricevuta dai maggiori, debbono trasmetterla inalterata alle generazioni

lunedì 2 gennaio 2012

Il demonio e la monaca: la Beata Eustochio


Tanti non ne conoscono l'esistenza, ma
 la Diocesi di Padova, anche grazie al prezioso lavoro di Mons. Brazzale, prosegue nel divulgare le virtù eroiche della monaca patavina, beatificata da Papa Clemente XIII.
Una Beata, Eustochio che merita sicuramente di essere scoperta, in un epoca in cui molti credenti (e molti sacerdoti) non credono all'esistenza del demonio e delle sue possessioni. Di seguito riportiamo qualche cenno sulla vita della Beata Eustochio (testo tratto da santiebeati.it):

La sua nascita non fu proprio legittima, Lucrezia Bellini nacque a Padova nel 1444, da una monaca del monastero benedettino di S. Prosdocimo e da Bartolomeo Bellini; a quattro anni il demonio s’impadronì del suo corpo, senza toglierle l’uso della ragione, tormentandola praticamente per tutta la vita. A sette anni fu affidata alle monache di San Prosdocimo che gestivano nel monastero una forma di educandato; la condotta della comunità non era proprio esemplare, ma Lucrezia agli svaghi mondani, preferiva il ritiro, il lavoro e la preghiera, era molto devota alla Madonna, a s. Girolamo e a s. Luca. Nel 1460 il vescovo Jacopo Zeno, alla morte della badessa, tentò d’imporre al monastero una maggiore disciplina, ma sia le monache, sia le educande, se ne ritornarono alle proprie case, rimase solo Lucrezia Bellini.

Giunsero allora in sostituzione nel monastero, le Benedettine provenienti dal convento di S. Maria della Misericordia, sotto la guida della badessa Giustina da Lazzara. Lucrezia ormai diciottenne, chiese di entrare nel loro Ordine e il 15 gennaio 1461, ebbe il nero abito benedettino, prendendo il nome di Eustochio; il demonio che da qualche tempo la lasciava in pace, si riaffacciò nel suo corpo, costringendola a fare atti contrari alla Regola, facendola addirittura esplodere in atti così chiassosi e violenti, che le consorelle ne furono terrorizzate e dovettero legarla per molti giorni ad una colonna.
Ma la quiete durò poco, dopo che Eustochio fu liberata, la badessa si ammalò di una strana malattia, fu incolpata lei, quasi considerandola un’ipocrita strega; fu chiusa in una prigione per tre mesi a pane ed acqua.
Ma tutte queste prove non avvilirono la novizia e a chi gli diceva di ritornare nel mondo o cambiare monastero, rispose che tutte quelle tribolazioni erano bene accette e che intendeva espiare la colpa da cui era nata, proprio là dov’era stata commessa; nella sua solitudine si confortava con la recita di un rosario o corona di salmi e preghiere, da lei stessa composte.
Una volta liberata, tornò ad essere tormentata dal demonio, con flagellazioni sanguinose, incontrollabili vomiti e altri strani patimenti che lei sopportava con inossidabile pazienza, ciò convinse le consorelle delle sue virtù e finalmente il 25 marzo 1465 fu ammessa alla professione solenne e come era usanza dell’epoca, due anni dopo gli fu imposto il velo nero delle benedettine.

La sua vita non fu lunga, era stata di grande bellezza ma le possessioni diaboliche, le malattie e le penitenze, l’avevano ormai ridotta ad uno scheletro vivente; gli ultimi anni di vita li trascorse quasi sempre a letto ammalata, assorta nella preghiera e nella meditazione della Passione di Gesù.

Morì il 13 febbraio 1469 a soli 25 anni, la sua fine fu così serena che il suo volto poté riacquistare l’antica bellezza; il demonio poche ore prima l’aveva lasciata finalmente in pace.
Eustochio è l’unico esempio che si conosca di una fedele arrivata alla santità, anche se per tutta la vita fu posseduta dal demonio.
Quattro anni dopo la sua morte, il corpo fu riesumato dal primitivo sepolcro, il quale cominciò a riempirsi d’acqua purissima e miracolosa, che cessò di sorgere solo quando fu soppresso il monastero.

Nel 1475 il corpo fu portato nella chiesa e dal 1720 fu collocato, visibile in un’arca di cristallo. Il monastero di S. Prosdocimo fu soppresso nel 1806 e il corpo della beata benedettina fu traslato nella chiesa di San Pietro sempre in Padova; sopra il marmoreo altare che contiene il suo corpo, sovrasta la pala dipinta del Guglielmi che rappresenta la beata, mentre calpesta il demonio.
Papa Clemente XIII, già vescovo di Padova, confermò il suo culto nel 1760, prima alla città patavina e poi esteso nel 1767 a tutti gli Stati della Repubblica Veneta.
La sua festa religiosa, ancora oggi officiata in tutta la diocesi di Padova, è al 13 febbraio.