domenica 17 ottobre 2010

Nostro Santo Padre Pacomio

E' considerato, con S. Antonio il Grande, suo contemporaneo, il padre del cenobitismo egiziano. 
Fu il primo che ne fissò per scritto la regola. Pacomio nacque verso il 292 nella Tebaide superiore, nella diocesi di Latopoli dei Greci (Esneh), da genitori pagani. Fin dall'infanzia dimostrò di avere ricevuto da natura un temperamento dolce. I genitori lo educarono al culto degli idoli, ma egli provò sempre una grande avversione per le cerimonie profane.
 Verso i vent'anni Pacomio fu costretto ad arruolarsi nell'esercito dell'imperatore Massimino Daia, che aveva bisogno di soldati per continuare la guerra contro Licinio e Costantino i quali, con l'editto di Milano (313), avevano ridato libertà alla Chiesa. Il giovane, con parecchie altre recluto, fu imbarcato di prepotenza sopra un vascello e trasportato a Diospoli, capitale della Tebaide. I cristiani che vi si trovavano, verso sera portarono ai soldati stanchi e affamati cibi e denari con la stessa sollecitudine con cui avrebbero soccorso i loro cari. Pacomio rimase profondamente impressionato nel sapere che essi trattavano così i prigionieri "per il Dio del cielo". Durante la notte e in seguito così egli pregò il loro Dio: "Dio creatore del cielo e della terra, getta su di me uno sguardo di pietà; liberami dalle mie miserie; insegnami il modo di rendermi gradito ai tuoi occhi; tutti i miei desideri e tutti i miei sforzi saranno di servirti e di compiere la tua santa volontà". Il giorno dopo fu costretto a rimettersi in viaggio. Il ricordo della carità dei cristiani e della risoluzione che aveva preso di essere utile in qualche modo al genere umano lo sostenne nella lotta contro una tentazione della carne che lo assalì mentre scendeva il Nilo. 
 Alla scomparsa di Massimino, in guerra contro Licinio nel Tauro (313), Pacomio, invece di ritornare alla casa dei genitori, stabilì la propria residenza presso la comunità cristiana di Senesit (l'attuale Kasr-es-Sayad). Prese alloggio in un piccolo tempio pagano abbandonato, si fece iscrivere tra i catecumeni e studiò le verità della fede con grande impegno. La notte dopo il battesimo, fece un sogno; vide la rugiada del cielo discendere sul suo capo, quindi scorrere sulla sua mano destra dove, prima di spandersi su tutta la superficie della terra, si condensava in miele. Era un presagio della sua futura missione che Iddio gli avrebbe manifestato a poco a poco. Cominciò subito a vivere da asceta, a pregare di più e ad esercitare la carità verso il prossimo, specialmente durante un'epidemia, ma non tardò ad accorgersi che gli era impossibile condurre nel villaggio la vita solitaria che desiderava- Decise perciò di farsi anacoreta mettendosi sotto la direzione di S. Paiamone, famoso monaco dei dintorni. Per sette anni ne condivise l'austerissimo genere di vita digiunando nell'estate quotidianamente e, a giorni alternati, nell'inverno; mangiando soltanto pane, sale e legumi, senza olio e senza vino; lavorando buona parte della giornata per il proprio sostentamento e il soccorso ai poveri; passando buona parte della notte in orazione. Durante le veglie, quando Paiamone vedeva il suo discepolo cascare dal sonno, lo invitava ad uscire con lui dalla cella per trasportare della sabbia da un posto all'altro e così poter continuare le loro orazioni senza correre il rischio di addormentarsi. 
 La vita anacoretica offriva possibilità di vita penitente e devota, ma rappresentava pure delle deficienze non essendo soggetta ad una vera regola e alla stretta ubbidienza ad un superiore. Nell'intento d'introdurre tra gli asceti la vita comune, sotto la guida di un unico superiore, con una regola uguale per tutti, Pacomio si separò da Paiamone e si stabilì a Tabennisi, villaggio abbandonato sulla riva destra del Nilo, nella diocesi di Tentiri. Un giorno, mentre pregava nella solitudine, gli giunse dal cielo una voce che gli disse: "Pacomio, Pacomio, lotta, installati qui e costruisci una dimora perché una folla di uomini verrà a te. Seguendoti essi si faranno monaci con profitto delle loro anime". I primi venuti non si sottomisero alla vita comune nel monastero che aveva costruito per loro. Altri Iddio gliene mandò che si dichiararono disposti ad accettare la regola che aveva composto, a vivere assieme, ad adattarsi agli uffici e ai lavori che il superiore avrebbe loro affidato. In poco tempo il monastero di Tabennisi fu riempito da un centinaio di monaci così che Pacomio sentì il bisogno di fare costruire per essi una chiesa.
 Quando il monastero divenne troppo piccolo per accogliere quanti chiedevano di vivere sotto la sua guida, ne fondò un altro poco distante a Pebu, presso Tebe, che divenne sede centrale. 
Intere colonie di anacoreti chiesero allora di fare parte della nuova istituzione. Tra il 320 ed il 346 essa contava già nove monasteri di uomini e due di donne, uno dei quali alle dipendenze della sorella del santo che lo aveva seguito nella solitudine insieme con il fratello maggiore, che poco dopo morì. 
 Pacomio visse quindici anni senza coricarsi, prendendo soltanto un po' di riposo seduto sopra una pietra. A partire dal giorno della sua conversione, non fece mai un pasto completo. Ogni monaco indossava una tunica di lana bianca senza maniche, stretta ai fianchi da una cinghia, portava sulle spalle una pelle di capra conciata, chiamata melote, che gli scendeva fino alle ginocchia e sopra dì essa si metteva una corta cocolla dotata di un cappuccio recante il segno del monastero e della casa alla quale ciascuno apparteneva. Infatti i monasteri, circondati da muretti, comprendevano fino a cinquanta case, con una trentina di celle ciascuna per i religiosi, la chiesa, il refettorio in cui tutti mangiavano in silenzio con il cappuccio in testa in modo da non vedere il vicino, la cucina, la dispensa, il guardaroba, l'infermeria, la biblioteca, le officine e il luogo di riunione per l'intera comunità. Ogni monastero aveva il suo superiore, nominato direttamente dal generale, assistito da un secondo. Anche le singole case del monastero avevano il proprio proposito con il secondo. I monaci erano assegnati all'una o all'altra casa conforme al mestiere che esercitavano, e avevano il proprio grado conforme all'anzianità di professione. 
 Il primo e l'ultimo giorno della settimana ogni monaco faceva la comunione. Pacomio non ammetteva i monaci agli ordini sacri. Ogni sabato essi si recavano ad ascoltare la Messa nella chiesa del villaggio e la domenica i preti del villaggio andavano a celebrare il divino sacrificio nella chiesa del monastero. Quando il santo cominciò ad accogliere tra i suoi monaci anche dei sacerdoti, è probabile che la Messa venisse celebrata tutte le volte nella chiesa della comunità. Per le pratiche di pietà c'era l'assemblea generale verso mezzanotte, presieduta generalmente dal superiore, in cui i monaci salmodiavano, leggevano la Sacra Scrittura e facevano alcune preghiere. Verso l'aurora e poi prima del pranzo, della cena e del riposo notturno, nelle singole case i monaci recitavano sei preghiere e alcun salmi. 
 La formazione ascetica dei monaci era curata dal superiore del convento il quale, tre volte la settimana, teneva loro convenienti istruzioni spirituali, e dai prepositi delle case i quali, due volte la settimana, facevano altrettanto con i loro sudditi. Ad esse si aggiungevano i frequenti colloqui dei sudditi con i superiori, le conferenze spirituali, le esortazioni occasionali e lo studio a tutti prescritto della Bibbia. Per questo Pacomio esigeva che i monaci imparassero a leggere. La regola che egli un po' alla volta diede ai suoi discepoli, e che S. Girolamo tradusse dal latino nel 404, reca l'impronta della moderazione e della praticità. Benché fosse diretta a una comunità, lasciava uno spazio sufficiente all'iniziativa individuale, soprattutto in materia di ascetismo e di preghiera, non avendo la pretesa di regolamentare minuziosamente tutti gli atti che i monaci dovevano compiere. 
 A tutti i membri era imposto il digiuno il mercoledì e il venerdì, mentre negli altri giorni gli addetti alla cucina preparavano per la comunità due pasti frugali a base di pane, legumi, frutta, formaggio, ma sufficienti e tali da permettere ai monaci di mortificarsi volontariamente in qualche cosa. 
 Ad alcuni Pacomio permetteva speciali mortificazioni e digiuni, ma a condizione che non impedissero ad essi di attendere al proprio ufficio non volendo che ne soffrisse la regolare osservanza. Tutti i monaci, non escluso il superiore, dovevano attendere al lavoro manuale, che in principio veniva limitato alla tessitura di stuoie, corde e canestri con i giunchi del Nilo e le foglie di palma. In seguito, quando i monaci divennero diverse migliaia, per procurarsi le risorse necessario al sostentamento esercitarono pure le professioni indispensabili alla vita, la cultura dei campi fuori del monastero e, al tempo dei raccolti, il servizio ai padroni in cambio di una quantità di derrate. 
 Nessun istante della giornata era lasciato all'oziosità. L'abate stesso curava i malati con grande sollecitudine. Il silenzio era rigorosamente osservato da tutti. Per avere quello di cui ognuno aveva bisogno si ricorreva ai segni. Trasferendosi da un posto all'altro i religiosi erano esortati a riflettere su qualche brano della Scrittura. Il lavoro era accompagnato dal canto dei salmi. Alla morte di ogni monaco veniva celebrata la Messa per il riposo eterno della sua anima. Pacomio visitava sovente i monasteri che aveva fondato per vigilare affinchè ovunque fosse osservata la regola.
 Un giorno il cellerario (economo) aveva venduto al mercato qualche stuoia a un prezzo più elevato di quanto gli era stato fissato. Il santo ordinò di restituire i soldi agli acquirenti e lo castigo per la sua avarizia. Un'altra volta un monaco si applicò con tanto impegno nel lavoro da riuscire a tessere due stuoie invece di una. Avendo poi fatto in modo che Pacomio le vedesse, costui si limitò a dire: "Questo fratello si è affannato dal mattino alla sera per lasciare il suo lavoro in balia del demonio". E per guarirlo dalla vanità gl'impose per penitenza di restare cinque mesi nella sua cella senz'altro cibo che un po' di pane, sale e acqua. 
I biografi attribuiscono al santo il dono delle lingue, la guarigione dei malati e la liberazione degli ossessi con l'uso dell'olio benedetto. Sovente diceva agli afflitti che le loro prove, in realtà, erano un tratto della divina bontà a loro riguardo; egli si contentava di pregare per ottenere ad essi forza e coraggio, dal momento che il male non poteva recare pregiudizio alle loro anime. Teodoro (+368), il suo più caro discepolo, che gli successe nel governo dei monasteri, soffriva costantemente di mal di testa. Pacomio rispose un giorno ai monaci che lo supplicavano di guarirlo: "L'astinenza e la preghiera sono sicuramente una sorgente di grandi meriti, ma la malattia sopportata con pazienza è sicuramente di un merito ancora maggiore". Prima di tutto egli chiedeva a Dio la salute spirituale dei suoi discepoli, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per guarire le loro passioni, specialmente quella dell'orgoglio. Pacomio fu pure dotato dello spirito di profezia.
 Annunciò difatti con rammarico ai suoi discepoli che l'Ordine da lui stabilito sarebbe in seguito decaduto dal primitivo fervore. Nel secolo XI scomparve addirittura dopo essere stato isolato geograficamente, psicologicamente e spiritualmente. 
 Pacomio nutrì una grande stima per i vescovi e in modo speciale per S. Atanasio (+373), patriarca di Alessandria d'Egitto, che non disdegnava di andare a visitare nella Tebaide i suoi monaci. I vescovi in genere conservarono amichevoli relazioni con il santo cenobita. Alcuni monasteri egli fondò in seguito alle istanze di alcuni di loro. Serapione, vescovo di Tentiri, lo esortò a costruire una chiesa in un villaggio per i poveri pastori. In essa il santo adempì l'ufficio di lettore. Operò pure numerose conversioni e si oppose vigorosamente agli errori degli ariani. Nonostante le insistenze del suo vescovo, non volle mai ricevere il sacerdozio. Poco prima di morire fu convocato a Latopoli, davanti ad un sinodo di presuli, perché fornisse spiegazioni sulle sue visioni e sui suoi doni. 
 Pacomio due volte all'anno radunava attorno a sé i superiori dei vari monasteri per mantenere in tutti, desta l'idea, che essi formavano una sola famiglia di cui egli si considerava non il dominatore, ma il servo. Dopo la riunione della Pasqua del 346 a Pebu scoppiò la peste che in poco tempo fece più di cento vittime. La più illustre di esse fu Pacomio stesso che morì il 9-5-346, dopo quaranta giorni di atroci sofferenze.
 Temendo che sul luogo della sua sepoltura si costruisse un martyrion, come si usava per i martiri, si fece promettere da Teodoro che non avrebbe lasciato il suo corpo nel luogo in cui sarebbe stato sepolto. Il discepolo tenne fede alla promessa fatta. Nel Martirologio romano la festa di San Pacomio è segnata al 9 maggio. Nei libri liturgici bizantini è segnata al 7.



venerdì 15 ottobre 2010

Ti sei nascosto e ora con lacrime io Ti cerco (San Silvano l’Athonita)

Dove sei, mio Signore? Ti sei nascosto all’anima mia, e con lacrime io Ti cerco. Signore, dammi la forza di umiliarmi davanti alla Tua grandezza. Signore, a te appartiene la gloria nei cieli e sulla terra, ma a me, tua piccola creatura, concedi il tuo spirito umile. Ti supplico, Signore buono, volgi lo sguardo su di me dall’alto della tua gloria, e dammi la forza di glorificarTi giorno e notte, perché l’anima mia ti ha amato per mezzo dello Spirito santo, e io vengo meno per Te e con lacrime Ti cerco.
Signore, donaci lo Spirito santo. In Lui Ti glorificheremo giorno e notte, perché la nostre carne è debole, metre il Tuo spirito è pronto e dà all’anima la forza di servirTi spontaneamente, e rafforza la mente nel Tuo amore; ed essa trova pace in Te in un riposo totale e non vuole più pensare a niente, se non al Tuo amore.
Signore misericordioso, il mio spirito malato non ha la forza di venire a Te, e perciò io Ti invoco come il re Abgar*: vieni e guariscimi dalle piaghe dei miei pensieri peccaminosi e io Ti loderò giorno e notte e Ti annunzierò agli uomini, affinché tutti i popoli conoscano che Tu, Signore, come già in passato, fai miracoli, perdoni i peccati, santifichi e doni la vita.

* re Abgar: Re di Edessa che viveva all’epoca di Cristo. Secondo gli storici ecclesiastici di quei tempi, il re Abgar avrebbe scritto una lettera a Cristo nella quale lo pregava di venire ad Edessa per guarirlo da una malattia da cui lui era stato colpito. L’inviato del re Abgar avrebbe portato un ritratto del Salvatore da Gerusalemme. Questo ritratto sarebbe rimasto impresso su un panno che il Salvatore avrebbe usato per asciugarsi il volto: questa l’origine dell’icona “non fatta da mano d’uomo” che si chiama “il Santo Volto”.
San Silvano l’Athonita
tratto da Archimandrita Sofronio,
Silvano del Monte Athos, Gribaudi, p.276





giovedì 14 ottobre 2010

Il Beato Columba Marmion


Un saldo punto di riferimento spirituale e dottrinale

FERDINAND POSWICK - Vice-Postulatore della Causa
Joseph-Aloysius Marmion nacque a Dublino da padre irlandese, William Marmion, e da madre francese, Herminie Cordier, il 1° aprile 1858. Tre delle sue sorelle diventeranno religiose presso le Suore della Misericordia. Considerato dai genitori come un dono di Dio, dopo la morte prematura di altri due fratelli, Joseph «viene promesso a Dio». Entra nel Seminario diocesano di Dublino all'età di 16 anni (nel 1874) e finirà brillantemente i suoi studi di teologia al Collegio di Propaganda Fide a Roma. È ordinato sacerdote nella chiesa di Sant'Agata dei Goti, il 16 giugno 1881.


Egli sognava di essere monaco-missionario in Australia, ma rimane affascinato dall'atmosfera liturgica della «neonata» Abbazia di Maredsous in Belgio (fondata dai fratelli Wolter, di Beuron, nel 1872) dove era passato a salutare un compagno di studi, tornando da Roma nel 1881. Voleva entrare in questo monastero, ma il suo Vescovo gli chiede di aspettare e lo nomina vicario a Dundrun, poi professore al Seminario Maggiore di Clonliffe (18821886). Cappellano di un convento di Suore Redentoriste e cappellano presso una prigione femminile, impara a guidare le anime, a confessare, a consigliare, e perfino, ad aiutare le moribonde. A metà novembre dell'86, ottiene dal Vescovo il permesso di partire per farsi monaco; si stacca così volontariamente da una carriera ecclesiastica che si annunciava promettente. A Maredsous viene accolto da Dom Placido Wolter, primo Abate di questo monastero ancora in costruzione. Il suo noviziato, vissuto sotto la guida austera di Dom Benoît D'Hondt, Maestro dei novizi severo e rigido, e con un bel gruppo di novizi giovani (mentre Marmion aveva già quasi 30 anni), sarà tanto più arduo per il fatto che egli si trova a cambiare abitudini, cultura, lingua. Ma dato che affermava di essere entrato in monastero per cercarvi l'ubbidienza, non può fare a meno di stringere i denti e di lasciarsi formare alla disciplina monastica, alla vita fraterna e alla preghiera corale fino alla professione solenne, emessa il 10 febbraio 1891. Da allora egli aiuta il Maestro dei novizi, dà lezioni nel Collegio, e soprattutto comincia a predicare con successo quando gli è permesso di andare in aiuto al clero nelle parrocchie vicine a Maredsous.
La sua prima grande ubbidienza, egli la riceve quando è nominato a far parte del gruppetto di monaci che devono fondare l'Abbazia del Mont-César a Lovanio. Anche se questa separazione è uno strazio per lui, egli vi si dona completamente, in nome dell'ubbidienza. Presto si vede affidato il ruolo di Priore, accanto al Padre Abate de Kerchove, nonché di responsabile spirituale e di professore di tutti i giovani monaci che si recano a Lovanio per studiare filosofia e teologia. È lì che si dedica a una fitta predicazione di ritiri, in Belgio e in Gran Bretagna, e nello stesso tempo a un gran numero di direzioni spirituali (soprattutto presso comunità di Carmelitane). Diventerà presto confessore del Vescovo Mons. Joseph Mercier, il futuro Cardinale. Columba Marmion avrà pure un'intensa corrispondenza di direzione spirituale. Egli rappresenta anche un punto di riferimento significativo presso alcune facoltà ed istituti dell'Università di Lovanio, dove viene consultato per la sua autorevolezza.
In questo periodo, l'Abbazia di Maredsous è sotto il governo di Dom Hildebrand de Hemptine, suo secondo Abate, che diventerà nel 1893, su domanda di Leone XIII, il primo Primate della Confederazione benedetta. Per le frequenti permanenze a Roma si finirà poi col richiedere la sua sostituzione come Abate. E Dom Columba Marmion viene eletto terzo Abate di Maredsous il 28 settembre 1909 e benedetto il 3 ottobre. Egli si trova dunque a capo di una comunità di più di 100 monaci, con una Suola di Umanesimo, una Suola di Arti applicate, una grande fattoria e una fama consolidata nelle ricerche e negli studi sulle origini della fede, con la «Revue Bénédictine» in particolare, e con varie altre pubblicazioni.
Queste molteplici attività locali costringeranno Columba Marmion, nonostante il suo zelo missionario, a rinunciare all'offerta avanzata dal Governo Belga a Maredsous di aprire una missione nel Katanga.
La cura della comunità non impedisce tuttavia a Dom Marmion di portare avanti sia il suo intenso apostolato con la predicazione di ritiri quanto le numerose e regolari direzioni spirituali. Non c'è da stupirsi dunque che gli si chieda di aiutare i monaci anglicani di Caldey desiderosi di diventare cattolici e di assicurare spiritualmente e canonicamente questa migrazione. La grande prova dell'Abate Marmion (che in questo periodo ha 56 anni e accusa diversi problemi di salute) sarà la guerra del '14-'18. La sua decisione di mettere i giovani monaci al riparo in Irlanda, in modo che possano proseguire tranquillamente nella loro formazione, provocherà gravosi impegni, viaggi pericolosi, preoccupazioni e incomprensioni fra le due generazioni di una comunità scossa e divisa dalla guerra. Nel 1920 fu necessario creare la Congregazione belga dell'Annunciazione (Maredsous, Mont-César, St-Andié de Zevenkerken). Dom Marmion è considerato inoltre come un grande Abate e un punto di riferimento spirituale e dottrinale.
Quando muore, durante un'epidemia d'influenza, il 30 gennaio 1923 alle 10 di sera, la sua fama di santità si è già affermata presso numerosi contemporanei. Un nuovo monastero prende il suo nome già nel 1933: Marmion Abbey (U.S.A.).
Per tutta una generazione di cattolici, ma più particolarmente di sacerdoti, religiosi e religiose, Dom Columba Marmion è stato un maestro di vita spirituale. Riportando i cattolici alle fonti bibliche (soprattutto a s. Paolo), e liturgiche della loro fede, li ha resi coscienti realmente della loro vita di figli di Dio, animati dallo Spirito, umili e semplici nel ricorrere alla misericordia e all'amore del Padre. Questa visione si accompagna a un grande senso della partecipazione al Corpo di Cristo nell'Eucaristia e a una forte pietà mariana che chiede alla Madre di Gesù di formare Cristo in tutti coloro che a lei ricorrono. Oggi la Chiesa attira l'attenzione di tutti i fedeli sulla fecondità spirituale della dottrina di Columba Marmion.

Imitazione di Gesù Cristo e anelito alla santità
NICOLAS DAYEZ - VII Abate di Maredsous
«Per Dio, la grandezza dei santi si misura sulla somiglianza che hanno con suo Figlio Gesù» (CDM 2,6,2; p. 406). Tutto il concetto che Dom Marmion aveva della santità si trova in questa frase. La santità si vede sempre e prima di tutto dal punto di vista di Dio; non si concepisce come avulsa da un rapporto con Cristo, di cui bisogna riprodurre i tratti. Se si deve avere una misura della santità, questa è la misura stessa della somiglianza con Cristo. Prima conseguenza da trarne: la santità non è riservata ad un'élite. Essa deve esser proposta a tutti i battezzati, senza eccezione. «Dobbiamo aspirare vivamente a far parte di questa società beata, nella quale Dio stesso trova le sue compiacenze: questo è per noi un motivo per non accontentarci di una perfezione mediocre, ma per puntare continuamente a rispondere con maggiore pienezza alle aspettative di Dio» (CDM 2, 20, 1; p. 608-609). Altra conseguenza: non bisogna confondere santità e perfezione. La santità non si colloca al livello di un certo numero di cose da fare, di pratiche da rispettare, di penitenze da imporsi. Dom Marmion fuggiva come la poste coloro che volevano essere loro stessi architetti della loro santità. Qui c'è un solo modello, un unico «ideale»: Cristo. «Tutta la santità consisterà allora nel ricevere, da Cristo e mediante Cristo... la vita divina; nel custodirla, nell'accrescerla senza tregua,... mediante un'unione sempre più stretta con Colui che ne è la fonte» (CVA 1,1,1; p. 42). Nella santità, c'è dunque posto per la debolezza, quella dell'uomo peccatore che si sa redento da Cristo. «Non è la nostra perfezione che può impressionare Dio, Lui che è attorniato di miriadi di angeli. No, è la nostra miseria, la nostra indegnità riconosciuta ad attirare la Sua misericordia... Lei non è mai così cara a Dio,... non le date così tanta gloria, che quando prendete pienamente coscienza della vostra miseria e della vostra indegnità» (Lettres anglaises, 1, 21, 13; p. 1143).
Dom Marmion ha previsto l'obiezione avanzata da coloro che trovano questo troppo semplice. «Noi siamo troppo spesso come il lebbroso venuto per consultare il profeta e sollecitare la sua guarigione; questi ha corso il rischio di privarsene perché trovava il rimedio troppo semplice. È il caso di molti che intraprendono la vita spirituale... talmente attaccati al loro modo di vedere che rimangono scandalizzati dalla semplicità del piano divino... Quelle anime che non hanno capito il mistero di Cristo si perdono nella molteplicità dei particolari e si stancano spesso in una fatica senza gioia... Tutto ciò che la nostra ingegnosità umana può creare per la nostra vita interiore non serve a nulla se non basiamo il nostro edificio su Cristo» (CVA 1,2, inizio; p. 58-59). E come in ogni cosa quando si tratta del Vangelo, l'amore ha sempre l'ultima parola: «L'ideale al quale dobbiamo puntare è il seguente: l'integrità di un amore puro; non lo scrupolo né la preoccupazione di non sbagliare, né il desiderio di poter dire a se stessi: “che non si possa mai trovarmi in fallo”: c'è della superbia in questo. È dal cuore che scaturisce la vita interiore; e se voi la possedete, cercherete di assolvere, per amore, tutte le vostre incombenze, con la più alta purezza d'intenzione e la maggiore cura possibile» (CIM 2,7,5; p. 737-738).
Dom Marmion ha così proposto la migliore scuola di santità: quella del Vangelo, di san Paolo. Non ha fatto altro che aprire a chiunque le porte di questa scuola. Ha soprattutto insegnato con l'esempio. La sua beatificazione lo riconosce pubblicamente.

Scrittore fecondo delle «cose» di Dio
MARK TIERNEY
Durante tutta la sua vita, Colomba Marmion ha esercitato il suo apostolato sacerdotale e monastico tanto con la penna, che con la predicazione. Era convinto di avere la vocazione di portare Dio alla gente e di condurre la gente a Dio. La sua fama di autore spirituale è ampiamente fondata sulla sua famosa trilogia: Cristo, vita dell'anima (1917),Cristo nei suoi misteri (1919), Cristo ideale del monaco (1922). Queste opere furono composte sulla base delle note prese al volo da persone che partecipavano ai ritiri o alle sue conferenze spirituali nel corso di tanti anni. Si può essere certi che si tratti effettivamente delle sue parole (piisissima verba) nella misura in cui questi tre libri sono stati riletti e corretti per la stampa da Marmion stesso. Nella recensione che fece di Cristo, vita dell'anima, il R. P. Doncoeur, s.j. osserva che «il mondo cattolico ha dato a quest'opera un'accoglienza unanime». Durante un'udienza privata, il papa Benedetto XV disse a Marmion, indicandogli questo stesso volume che teneva a portata di mano: «Questo mi aiuta molto nella mia vita spirituale». E poco tempo dopo, ricevendo Mons. Szeptickij, Arcivescovo di Lemberg, lo stesso pontefice gli raccomanda la lettura di Cristo, vita dell'anima, aggiungendo: «Leggete questo, è la pura dottrina della Chiesa». Si è detto che gli scritti di Marmion abbiano contribuito a formare varie generazioni di sacerdoti, religiosi e religiose, soprattutto tra 1920 e 1960. Ed è vero che egli ha esercitato una grande influenza attraverso i suoi libri, tanto in vita che dopo la morte, sopraggiunta nel 1923. Molti dei Padri del Concilio Vaticano II erano stati spiritualmente formati con la lettura di Dom Marmion. Il maggiore contributo di Dom Marmion alla storia della spiritualità fu la sua visione del ruolo di Cristo nel disegno di Dio. Ha dato ai suoi lettori tutta una Cristologia, ponendo Cristo al centro del suo insegnamento. Il segreto della profonda influenza che esercitava sulle anime era l'intimità della sua relazione con Cristo. Questi intimità proveniva da una meravigliosa sintesi tra Sacra Scrittura, Liturgia e il meglio della tradizione monastica. Egli riassumeva il suo modo d'insegnare dicendo: «Il mio obiettivo è quello di fissare l'attenzione ed il cuore dei miei lettori su Gesù Cristo e sulla Sua Parola. Egli è l'Alfa e l'Omega di tutta la santità, e la sua Parola è il seme divino da dove germoglia ogni santità... Ho la convinzione che se io potessi trasmettere il messaggio di Dio proprio con le Sue parole, in armonia con la divina semplicità del suo piano, si otterrebbero gli stessi effetti prodotti da Lui stesso e, debbo dire che le mie speranze non sono state deluse». Marmion fu uno dei primi autori spirituali dei tempi moderni a sottolineare le ricchezze spirituali contenute nei misteri di Cristo che la Chiesa celebra d'anno in anno. Era sua premura aiutare la gente comune a comprendere e a celebrare con fervore le grandi feste liturgiche. Egli fu anche uno dei primi scrittori a usare l'espressione di «movimento liturgico», in occasione di un Convegno organizzato a Maredsous nel 1912, con l'obiettivo di incoraggiare la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia ecclesiale. Marmion non ci parla dall'alto di una torre d'avorio, né come qualcuno dei tempi passati. Egli ci parla in un linguaggio del tutto attuale, e ci comunica un messaggio per il giorno d'oggi. Mentre la sua Trilogia è tutta ricolma della sapienza secolare della vita monastica, le sue parole inducono i nostri cuori e le nostre menti a volgersi alle cose di Dio, anche in questo XXI secolo.
La spiritualità delle sue opere nate «nella» e «dalla» preghiera
Non è facile classificare la spiritualità di Dom Marmion. I suoi libri non sono «libri di devozione»; non sono neanche della pura «teologia». Si è tentato di dire che il miglior modo di assaporare le sue opere era di «leggere e meditare su esse tanto col cuore che con la mente». Marmion sapeva, grazie alla sua lunga esperienza di relazioni umane, che la gente è affamata di spiritualità. I suoi scritti erano destinati a dare un nutrimento solido per la vita spirituale. Da giovane sacerdote, aveva prestato servizio come cappellano, presso la prigione di Mountjoy a Dublino. Fra i carcerati, uomini e donne, c'erano dei criminali incalliti. Stabilì con loro un buon rapporto e scoprì quanto erano stati delusi dalla vita. Era un'epoca in cui la gente era spesso incarcerata a vita e senza nessuna speranza di ritrovare la libertà. Nonostante ciò, Marmion riuscì a conquistarli e in certi casi a infondere in loro speranza e consolazione, nonché la fede nella misericordia del Dio d'amore, che li raggiungeva proprio dentro la situazione che stavano vivendo. Più tardi, egli doveva scoprire simili disperazioni in altri generi di vita. Questo tipo di esperienza condusse Marmion a proporre una teologia della speranza, convinto com'era che ogni uomo ed ogni donna sono chiamati ad un destino migliore di quello che può offrire questo mondo. Marmion era nato nel 1858. Per nascita e per educazione, era un frutto autentico della seconda metà del '900 a Dublino, zona di devozione popolare e di pratica religiosa di tradizione romana: quarant'ore, missioni parrocchiali, novene, giubilei, pellegrinaggi, ecc. Tre devozioni predominavano allora particolarmente: quella al Sacro Cuore, quella all'Eucaristia e quella alla Vergine Maria. (I Vescovi irlandesi avevano consacrato l'Irlanda al Sacro Cuore nel 1873). È interessante notare che nelle conversazioni dei ritiri (non pubblicate), Marmion ricorda come sua madre soleva leggere in famiglia dei brani di un libro intitolato L'imitation du Sacré-Coeur, composto dal Padre Arnaud, s.j.. Egli approfondirà poi la sua comprensione del ruolo che il Sacro Cuore deve avere nella vita dei fedeli e darà una sintesi del suo pensiero su questo argomento in Le Christ dans ses mystères (ch. 7: Le Sacrifice eucharistique). Se si cercassero le principali fonti della dottrina di Marmion, bisognerebbe cominciare con le epistole di San Paolo, nonché con il Vangelo e le epistole di San Giovanni. Egli cita molto spesso il brano di S. Giovanni: «Se qualcuno mi ama, il Padre mio lo amerà e faremo in lui la nostra dimora» (Gv 14, 23). In San Paolo, trova la dottrina dell'adozione divina e ne farà il tema centrale del suo insegnamento. Si potrebbe addirittura chiamare Marmion il Dottore della divina adozione, da quanto ritorna continuamente su questo tema: «Le meraviglie dell'adozione divina sono così grandi che il linguaggio umano non può venirne a capo. È una cosa meravigliosa che Dio possa adottarci come figli suoi» (Le Christ dans ses mystères). Tutta la vita, Marmion ha praticato la Lectio divina, una lettura orante di autori spirituali e di testi teologici. Egli pone san Tommaso d'Aquino al vertice del suo elenco di citazioni, subito dopo la Bibbia e la Regola di san Benedetto. Aveva studiato la Summa theologica di san Tommaso d'Aquino con il professore Satolli, durante il soggiorno di studi a Roma e non cesserà di tornare a questa fonte come ad una guida sicura nel pensiero cattolico. I suoi autori spirituali preferiti erano Mons. Gay, san Francesco di Sales e santa Teresa d'Avila. Da monaco benedettino, Marmion ha consacrato gran parte del suo tempo al coro, per prender parte all'Ufficio Divino. Non c'è dubbio che la vita interiore, come il suo insegnamento, debbono molto alla liturgia. Egli amava descrivere l'Ufficio Divino come «un vero granaio preparato da Dio stesso... quando ci impegniamo fedelmente nella celebrazione dell'Ufficio Divino, lo Spirito Santo viene a darci gradatamente una profonda conoscenza della perfezione di Dio e dei misteri di Cristo».
Tutti gli scritti di Marmion sono nati nella preghiera e dalla preghiera. Non possiamo trovare una guida più sicura per condurci al cuore delle realtà spirituali e per portarci in seno alla vita trinitaria del Dio d'amore. Come diceva il Cardinale Mercier: «Egli ci aiuta a toccare Dio».
M. T.

L'iter della causa di beatificazione

OLIVIER RAQUEZ - Postulatore
Morendo il 30 gennaio 1923, l'Abate Columba Marmion lasciava il ricordo d'un grande monaco impegnato nella ricerca di Dio. Evidente il suo zelo per diffondere questo amore nel cuore dei suoi monaci e di quanti egli poteva avvicinare. Pertanto, coscienti di questa grande meraviglia compiuta da Dio in questo suo servitore, molti di quanti lo avevano avvicinato, ne auspicarono, sin dal momento della sua morte, una pubblica riconoscenza e canonizzazione; tra loro anche Giovanni Battista Montini futuro Papa Paolo VI. La Causa viene ufficialmente aperta nel 1955 con la nomina, fatta dall'Abate di Maredsous, di un Postulatore e tre Vice-Postulatori. Lungo gli anni 57- 61, il processo diocesano interroga 45 testimoni sulla fama di santità del Servo di Dio, pubblicandone pure un Summarium di 563 pagine nel 1981. Dal 57 al 60, si raccolgono tutti i suoi scritti ed essi sono portati a Roma per essere esaminati da teologi. Nel 1973, ne viene pubblicato una descrizione e valutazione chiamata «Positio super Scriptis» del tutto positiva. Nel 1981, un altro volume di 171 pagine presentò le «lettere postulatorie» nelle quali numerose Autorità religiose chiedevano che il processo sia portato al suo termine. All'inizio del 1983, numerose norme della procedura della Cause di canonizzazione sono state riformate. Una delle sue principali nuove esigenze era la preparazione di una «Positio super Vita et Virtutibus» dei Servi di Dio, redatta secondo il metodo di una ricerca scientifica basata su documenti. Molti di questi documenti erano stati raccolti antecedentemente ma bisognava completarli e presentarne una sintesi. Occorreva trovare competenze per compiere questo ulteriore grosso lavoro. Nel 1994 fu pubblicata una biografia critica-storica di Dom Marmion. Essa costituì il l volume di una «Positio Super Virtutibus et Fama Sanctitatis», mentre un secondo volume vi aggiungeva altri documenti informativi. L'esame delle Virtù e della Fama di Santità d'un Servitore di Dio costituisce la base centrale di una sua eventuale beatificazione. Ma, di per sé, non basta. Le Norme tradizionali tuttora in vigore richiedono che siano rese manifeste anche da interventi miracolosi che escono dal corso naturale della vita. All'intercessione di Dom Colomba sono state attribuite molte grazie. Una di esse è stata esaminata particolarmente e finalmente considerata come miracolosa. Trattavasi della guarigione di un cancro, avvenuta ad una Signora negli Stati Uniti di America. Il male era apparso nel 1965.
Nel 1966 si era aggravata, lasciandola senza speranza di vita. Dietro consigli di alcuni monaci di Marmion Abbey, si invocò l'aiuto divino per l'intercessione del Servitore di Dio, Improvvisamente, ottenne una guarigione completa, ampiamente confermata da esami successivi. Per essere sicuri della stabilità della guarigione, si lasciarono prima passare alcuni anni. Poi, tra il 1978 e il 1996, lunghe e minuziose indagini scientifiche furono svolte dalla diocesi di Saint Cloud dove risiedeva e vive tuttora la Signora. Conclusero per il carattere miracoloso dell'intervento. Oramai il dossier della Beatificazione era pronto. La Positio sulla Vita e la Fama di Santità fu esaminata a Roma prima dai teologi e poi da una Congregazione Ordinaria di Padri Cardinali e Vescovi, Si concluse il 19 giugno con il Decreto del Santo Padre sulle virtù eroiche di Dom Columba. Anche quella sul Miracolo è stata esaminata a Roma, prima da un Collegio di medici, poi da un Congresso particolare di Consultori teologi ed infine da una Congregazione Ordinaria di Padri Cardinali e Vescovi, concludendosi con il Decreto sul Miracolo il 27 gennaio 2000. Che la sua beatificazione susciti un rinnovato interesse sulla figura, l'opera e la testimonianza dell'Abate Columba, facendo scoprire nella sua dottrina e nell'esempio della sua vita una via particolarmente ricca ed equilibrata per avvicinarsi a Cristo.
© L'OSSERVATORE ROMANO Domenica 3 Settembre 2000



mercoledì 13 ottobre 2010

Intervista alle Benedettine di San Magno



Tutte le esperienze monastiche presenti in Italia e nella maggior parte dell'Europa cattolica, traggono origine da San Benedetto da Norcia, che a cavallo del V e il VI secolo diede il via al monachesimo occidentale  organizzando una forma di vita in cui si è chiamati a vivere all'interno di comunità sotto una regola e un abate secondo la celebre formula ora et labora che alterna preghiera e lavoro.
Nel corso dei secoli sono stati molti gli ordini monastici che hanno riformato la regola benedettina,  come cistercensi, camaldolesi o certosini, mentre altri, come carmelitane e clarisse, hanno ripreso la forma di vita benedettina pur avendo storie, carismi e regole proprie.
Le monache benedettine come quelle del monastero di San Magno ad Amelia, quindi, sono invece le eredi dirette' di San Benedetto, avendo mantenuto inalterata la regola scritta dal santo umbro, proclamato patrono d'Europa proprio per l'universalità della sua spiritualità.
La storia del monastero di Amelia, in cui vivono attualmente 7 donne, affonda le sue radici nel 1200, e sin dalla sua fondazione è stato legato all'Abbazia di San Paolo Fuori le Mura di Roma, in cui hanno vissuto figure importanti per la storia della Chiesa come Giovanni Franzoni, Placido Riccardi e il cardinale di Milano Ildefonso Shuster: questi ultimi due, entrambi beati, hanno lasciato tracce della loro opera nello stesso monastero di San Magno.
Placido Riccardi , in particolare - che era di Trevi e fu maestro dello stesso Schuster - dal 1884 al 1894 ebbe l'incarico come vicario presso il monastero amerino, dove si distinse per il fervore che seppe infondere nell'illuminare le menti e nel difendere la disciplina monastica.

La vostra Regola è stata scritta 1500 anni fa. Non è un po' superata?
"No, perché la Regola Benedettina è più che una norma giuridica: è l'esortazione che un padre affettuoso rivolge al proprio figlio, è l'istruzione di un "Maestro buono" che va in aiuto del suo discepolo in ricerca della vera vita. E' una regola immersa nelle Sacre Scritture. Ogni volta che la rileggiamo la riscopriamo nella sua attualità, perché è rivolta alla singola persona, alla sua crescita e alla sua piena realizzazione umana e spirituale, affinché diventi una vera donna o un vero uomo interiormente unificati. 
Quello che contraddistingue San Benedetto rispetto agli altri santi suoi contemporanei è il suo equilibrio. Benedetto conosce così bene il cuore dell'uomo da considerarne tutti gli aspetti che impediscono al discepolo di essere veramente libero. A lui non interessa né una penitenza esasperata né un'esaltazione mistica, interessano persone che siano adulte nella fede. L'attualità della Regola Benedettina sta proprio in questa comprensione del cuore dell'uomo che è poi l'uomo di ogni tempo".

Quale è il carisma che caratterizza il vostro ordine?
"San Benedetto parla del Monastero come "scuola del servizio divino" ed è proprio questo il carisma che ci è stato affidato. Siamo segno della Chiesa, vergine e sposa, che senza interruzione immola a Dio suppliche, lodi e benedizioni, anticipando un pochino il regno dei cieli".

Perché la clausura?
"Innanzitutto bisogna fare una premessa storica: la clausura come è intesa oggi, con le grate e il resto, nasce alla fine del medioevo per proteggere - a volte, purtroppo, per costringere - le donne, ed è soprattutto il carisma carmelitano a darle particolare valore. Il monachesimo benedettino non nasce, quindi, "di clausura". Le monache, come i monaci fanno invece voto di stabilità, cioè di vivere nel monastero, e sempre nello stesso".

Perché?
"Uscire, andare in giro per il mondo significa un po' anche disperdersi. Questo non significa certo che chi è dentro è buono e chi è fuori è cattivo, ma il nostro è un carisma contemplativo, di lode a Dio dentro le mura. D'altra parte anche Adamo viveva dentro un giardino, bellissimoma delimitato. E anche Mosé e Gesù per incontrare Dio salgono su un monte, in un luogo appartato. E il profeta Osea scrive "l'attirerò a me, la condurrò nel deserto".

Torniamo alla clausura...
"In quest'ottica anche la clausura diventa segno e strumento necessario per una custodia del cuore e della mente, perché tutto di noi stessi sia alla ricerca di Dio. Vivere in clausura è il mezzo per ricordarci che viviamo nel mondo, ma non siamo di questo mondo, è l'esperienza di chi porta nel cuore le ansie e le ferite, le gioie e i dolori, i combattimenti di ogni fratello e sorella. Ma non li porta perché li vede negli altri leggendolo nei giornali o ascoltando in parlatorio. Li porta nel cuore perché li vive nella propria carne. E' nella clausura e nel silenzio  che siamo aiutate a invocare Dio perché ci mostri e ci doni di compiere la sua volontà in ogni esperienza. Diceva un Padre che essere monaca significa entrare nell'inferno della vita di ogni uomo e portare in esso l'esperienza della resurrezione".

Quali rapporti avete con il mondo esterno?
"E' l'esperienza del Mistero pasquale che viviamo, nella nostra vita a determinare il nostro rapporto con il mondo e che ci permette di dire ai fratelli che bussano alla nostra porta "Dio è tuo padre e ti ama perché ama e salva anche me".

Come è la vostra vita quotidiana?
"La nostra giornata inizia con la preghiera, e il primo gesto - bellissimo - di questo tempo è il segno di croce sulle labbra con l'invocazione a Dio di aprire lui stesso al nostra bocca, perché la preghiera diventi il primo dono del giorno. Fino a quel momento, manteniamo quindi il 'sacro silenzio'. La preghiera comunitaria continua poi per altre 6 volte durante la giornata ed è alternata da lavoro, lectio divina, ricreazione e riposo. In monastero davvero è difficile annoiarsi!".

Come si sceglie di diventare monaca benedettina?
"Noi non abbiamo scelto di diventare monache, abbiamo solo risposto a chi ci ha invitate a "gustare e vedere quanto è buono il Signore". Lui ci ha scelte e solo dopo aver gustato l'amore di Gesù Cristo e la forza dello Spirito Santo possiamo noi scegliere. Ma anche scegliere è dono".

Quale è la cosa più difficile e quella più bella della vostra vita?
"Un salmo può rispondere ad entrambe le domande: "Ecco quanto è bello e gioioso che i fratelli vivano insieme".
Certamente la vita fraterna è l'esperienza più difficile. Vivere la comunione vera fra noi, la vera carità, è la bellezza che viene costantemente minata da quelle ferite del cuore (che poi sono i nostri peccati) di cui parlavamo prima. E' difficile amarsi con chi si sceglie, figuriamoci con chi ti è "capitato accanto" e che porta con noi, una cultura, un'età, un mondo interiore totalmente diverso dal tuo.
Ma proprio qui si mostra la potenza di Gesù Cristo: è lui che ricostruisce la comunione, che ci permette di perdonare, di pazientare e che fa ritornare ad essere come un solo corpo nelle pace e nella gioia".

domenica 10 ottobre 2010

La preghiera del cuore.

La preghiera del cuore consiste nel “dire” qualcosa a Dio. Essa rappresenta un livello ancora più alto di quello della meditazione. Quando la persona giunge a sentire il bisogno di “parlare” a Dio, di aprirgli il cuore con fiducia, di esprimergli l’affetto filiale e la lode senza formule prestabilite, ma con parole che vengono dall’intimo, come quelle che siamo soliti dire alle persone che più amiamo, allora significa che si è giunti alla preghiera del cuore e che si è ben avanti nello sviluppo della carità teologale. Questo tipo di preghiera si manifesta sia in momenti celebrativi comunitari, sia nella preghiera intima e individuale, e assume quindi sia il carattere vocale che mentale. Negli incontri di preghiera, quando la comunità si raduna per l’ascolto della Parola o per l’Adorazione, allora la preghiera del cuore si presenta come preghiera spontanea, perlopiù sotto la forma della lode. Nella preghiera individuale, la preghiera del cuore si ha nella spontanea e filiale consegna della propria vita quotidiana a Dio, sentito come Padre. La conoscenza di Dio come “mio” Padre è essenziale alla preghiera del cuore; senza questo rapporto veramente filiale con Dio non può esserci alcuna preghiera del cuore. Sarebbe inautentica se ci fosse.

giovedì 7 ottobre 2010

Olivier Clément LA FILOCALIA: I testi - La via - La pratica (”pràxis”) - La contemplazione della natura ('phhysikè theorla”) - La deificazione (”théosis”).

Filocalia significa 'amore per la bellezza”, o anche, più banalmente, florilegio, antologia. La bellezza in questione è quella di Dio, che si riflette nella creazione, sebbene le forze del nulla, con la nostra complicità, deturpino in parte il creato. Lo scopo dei testi filocalici è di aiutarci, in Cristo, a liberare ogni bellezza. Possiamo così capire la definizione di Dionigi l'Areopagita: la bellezza “suscita ogni comunione”. Per questo padre André Scrima ha potuto affermare che il genio dell'ortodossia è “filocalico”.
Ogni raccolta di testi spirituali destinata a favorire e interiorizzare la preghiera è una piccola filocalia. Ciascuno può così comporre la propria. Ma certe grandi filocalie sono state veri e propri eventi che hanno segnato la storia della chiesa. Fu così che Basilio il Grande e Gregorio il Teologo nel IV secolo salvarono, facendone una filocalia”, i più bei testi di Origene, il cui sistema di pensiero era sempre più contestato. Analoghe, seppur più brevi, presentazioni di questo tipo appaiono anche nel periodo propriamente bizantino, come ad esempio il Trattato sulla sobrietà e sulla custodia del cuore' di Niceforo l'Esicasta. Quella, tuttavia, che ha finito per essere riconosciuta come la “filocalia” per antonomasia, è la grande Filocalia greca, pubblicata a Venezia (lontano dai vincoli dell'Impero ottomano) nel 1782. Il solo autore non di lingua greca in essa è Giovanni Cassiano che è tuttavia tradotto.
La grande Filocalia è uno dei frutti, nonché uno degli strumenti, di quel rinnovamento spirituale che, negli ultimi decenni del XVIII secolo, strappò la chiesa ortodossa alla decadenza e la rese capace di affrontare i tempi nuovi dell'Europa dei “Lumi”. in Grecia, grazie al messaggio e all'azione di Cosma Etolo; in Russia, con la spiritualità già dostoievskiana di Tichon di Zadonsk e il moltiplicarsi dei gruppi di preghiera femminili; nei paesi romeni, che servivano da rifugio ai monaci russi e ucraini più contemplativi, mediante l'irraggiamento dello starec Basilio di Poiana Màrului. La decadenza a cui alludo è quella evidenziata dallo scisma e dalle sette nella chiesa russa, il cui patriarcato era stato soppresso da Pietro il Grande; quella favorita dal dominio della Porta sul patriarcato ecumenico e dei pascià sull'episcopato, spesso forzato alla simonia; quella prodotta dall'oblio, nei monasteri, dei testi fondatori della vita spirituale… Il rinnovamento spirituale che contrastò tale decadenza avvenne grazie alla ripresa di una teologia e di una vita sacramentale fedeli alla tradizione. E' a tal fine che i curatori della Filocalia, Macario (Notaras), già metropolita di Corinto, e Nicodemo l'Aghiorita (cioè della Santa Montagna, l'Athos) pubblicarono un'opera molto documentata che raccomandava una pratica regolare della comunione e che criticava il rito ad essa sostitutivo costituito dalla consumazione domenicale delle collive, i dolci per i morti (fu la celebre disputa dei “collivadi”, che infuriò per molto tempo all'Athos). Nicodemo aveva iniziato a pubblicare a Vienna le opere di Gregorio Palamas e di Simeone il Nuovo Teologo, ma tutti i volumi che aveva stampato furono distrutti da un incendio, senza dubbio doloso.
I due amici si dedicarono allora alla Filocalia. Essa apparve senza complicazioni con il titolo: Filocalia dei santi padri neptici compilata a partire dai nostri padri santi e teofori, nella quale, attraverso la pratica (pràxis) e la contemplazione (theorìa) della filosofia morale, l'intelletto è purificato, illuminato e reso perfetto. Corretta con grandissima cura e stampata ora a spese del molto onorevole e molto amato da Dio signor Giovanni Maurokordatos per l'utilità comune degli ortodossi (Venezia 1782, nella stamperia di Antonio Bortoli). Spieghiamo qualche termine:
- neptico: che si dedica alla népsis, attenzione, vigilanza, veglia;
- filosofia morale: sapienza spirituale;
-intelletto: in greco nous, l'organo della contemplazione;
-Giovanni Maurokordatos: un signore romeno, forse il figlio di un principe moldavo. I romeni, che avevano salvaguardato una certa autonomia, furono i principali benefattori dei monaci dell'Athos e dei luoghi santi.
Macario e Nicodemo ricoprirono ruoli differenti ma ugualmente importanti nella genesi della Filocalia. Il primo ricercò, scoprì e scelse i testi in base alla loro qualità, il secondo redasse le introduzioni e l'importante prefazione.
Quello che la Filocalia vuole riproporre in modo aggiornato, forse per adattare la tradizione ai tempi nuovi, attraverso la divulgazione di ciò che, pur non essendo segreto, restava coperto da grande discrezione, è la tradizione esicasta (dal greco hesychia: pace, silenzio dell'unione con Dio) che è stata ed è tuttora l'anima del monachesimo orientale, e che Gregorio Palamas aveva giustificato teologicamente nel XIV secolo. Non si tratta dunque di una “scuola di spiritualità” nel senso occidentale dell'espressione, bensì del cuore stesso dell'esistenza ortodossa, in cui il dogma è inseparabile dalla preghiera.
Macario dice di aver scoperto nella biblioteca del monastero di Vatopedi “un'antologia sull'unione dell'intelletto con Dio, raccolta a partire dagli scritti degli antichi padri, per opera di pii monaci d'altri tempi”; egli afferma altresì d'aver trovato anche altri libri sulla preghiera “dei quali non aveva mai sentito parlare”, il tutto notevolmente in cattivo stato. Senza dubbio è da qui che prende l'ispirazione per il suo grande lavoro. Del resto, a partire dal 1700, la versione greca delle opere di Isacco di Ninive era stata edita sotto il nome di Isacco il Siro - incrocio significativo del genio siriaco e di quello greco -.
La Filocalia, dice Nicodemo nella sua prefazione, è rivolta “sia ai monaci che ai laici”, tutti chiamati a “unificarsi” interiormente unendosi a Dio, e mediante tale unione, in Cristo, a unirsi con tutti gli uomini, secondo la preghiera sacerdotale del Signore “che tutti siano uno come noi siamo uno” (Gv 17,22). Per questa ragione gli ultimi testi della raccolta, i quali insistono con maggior frequenza sull'uso concreto del “metodo”, sono redatti in lingua popolare. E' per questo motivo che in essi sono deliberatamente ignorati i riti e i dettagli della vita monastica. Per lo stesso motivo, infine, sono evitate le polemiche con gli altri cristiani.
I testi
Per quanto riguarda i testi inclusi nella Filocalia, solo raramente si tratta di estratti. Più spesso sono trattati, centurie e insiemi coerenti di capitoli a essere riportati integralmente. Ciascuno di essi è introdotto con cura, e Nicodemo utilizza le migliori conoscenze della sua epoca. Nel farlo, questo detrattore degli “illuministi si mostra perfettamente al corrente delle ricerche occidentali del suo tempo.
I vari autori sono disposti in ordine cronologico. Troviamo all'inizio le prime testimonianze monastiche, con un netto predominio di Evagrio Pontico. Costui, per primo, aveva cercato di concettualizzare l'esperienza del deserto, attribuendo, in una prospettiva origeniana, un posto centrale al nous (l'intelletto). Le tappe della purificazione del nous, il discernimento e - se così si può dire - la classificazione delle passioni, l'approdo alla luce interiore e il suo superamento finale, sono tutte esperienze stabilite in modo chiaro. Molto più in là, alla ventesima posizione, troviamo la versione di Simeone Metafraste (fine del X secolo) del corpus macariano. Sappiamo che l'antropologia di “Macario” è molto più biblica ed è incentrata sul “cuore”. L'unione dell'intelletto e del cuore appare allora come il tratto essenziale della prassi esicasta, ma la tonalità della Filocalia resta evagriana.
Di seguito si trovano testi scritti durante il periodo propriamente patristico culminante in Massimo il Confessore. Sono inoltre compresi nell'antologia di Nicodemo gli apporti del Sinai e del monachesimo siro-palestinese. Il vescovo Diadoco di Fotica (Epiro, fine del V secolo) menziona esplicitamente, per la prima volta, l'invocazione “Signore Gesù”, e pone in risalto i sensi spirituali e l'esperienza della pienezza (plerophoria).
Dello stesso Massimo il Confessore sono riprese le Centurie sulla carità, a cui seguono i duecento Capitoli sulla teologia e sull'economia dell'incarnazione del Figlio di Dio e i cinquecento Capitoli vari sulla teologia e l'economia, sulla virtù e il vizio. Non ci si soffermerà mai troppo sull'immensa sintesi di Massimo, né è possibile presentarla in poche parole. Ci limitiamo a rilevare, essendo divenuto uno dei tratti salienti della via filocalica, il ruolo della “contemplazione naturale” (physikè theoria) che permette di discernere il Logos attraverso il velo trasparente della natura e delle Scritture.
Poi, all'incrocio tra il primo e il secondo millennio cristiano, nel cuore stesso di Costantinopoli, troviamo l'esplosione carismatica con i due Simeone, l'Anziano e il Nuovo Teologo, che continuerà con il discepolo del secondo, Niceta Stethatos. In questi autori l'essenziale è il “battesimo dello Spirito”, l”'improvvisamente” della grazia e la relativizzazione della gerarchia dinanzi alla libera esperienza della Luce.
Alla fine del XIII e nel XIV secolo, in un'epoca tragica per la chiesa “greca” a motivo delle invasioni da oriente (turchi e mongoli) e da occidente (lo smembramento dell'impero bizantino dopo la quarta crociata, i cavalieri teutonici), delle guerre civili in ciò che restava di Bisanzio e della spinta serba nei Balcani, la via esicasta è riadattata e trasmessa in parte per iscritto. La forte sintesi palamita unisce esperienza e teologia, impedendo a quest'ultima di trasformarsi, come in occidente, in scienza speculativa. Un quarto della Filocalia è dedicato all'opera di Gregorio Palamas con, come è noto, le Triadi in difesa dei santi esicasti e i Capitoli fisici, teologici, etici e pratici. In tal modo si precisa l'antinomia tra il Dio inaccessibile, essenza sovraessenziale, e il medesimo Dio che, per amore, si rende partecipabile nelle sue “energie”, cioè tramite le sue operazioni che ne comunicano la vita e la luce. Seguono i grandi mistici della seconda metà del XIV secolo, Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Callisto Telikoudes e Callisto Kataphyghiotes.
La Filocalia si conclude con una mezza dozzina di piccoli trattati, tradotti (spesso molto liberamente) in greco moderno. Se si eccettuano due estratti della vita di Massimo il Kausokalyba (il “brucia capanne”, perché rifiutava tutte le installazioni stabili all'Athos) e di Gregorio Palamas, si tratta di indicazioni concrete sull'uso della preghiera esicasta per aiutare coloro, monaci o semplici laici, che avrebbero voluto dedicarvisi:
- di un anonimo, Sulle parole della santa preghiera: Signore Gesù Cristo, Piglio di Dio, abbi pietà di me.
- di un altro anonimo, un trattato sul Kyrie eleison il cui uso giaculatorio precede di solito quello dell'invocazione del Nome di Gesù.
- attribuito a Simeone il Nuovo Teologo, in realtà più tardo, il Metodo, sui tre modi della preghiera.
- di Gregorio il Sinaita, grande difensore e propagatore della preghiera di Gesù all'Athos e in Bulgaria attorno al 1300, Come ciascuno deve dire la preghiera.
La via
La via filocalica implica una concezione unitaria dell'uomo e presuppone che tutto l'uomo, anima e corpo, si faccia preghiera, diventando pura relazione con Dio attraverso Gesù Cristo, e prenda così coscienza della propria resurrezione nel Risorto. L'intelletto deve porre le sue radici nel “cuore”, dove l'uomo è chiamato a unificarsi e a superarsi, cioè a scoprire in se stesso, come dice Nicodemo, “il regno di Dio, il tesoro nascosto nel campo del cuore”. Questa discesa dell'intelletto si compie nell' invocazione della presenza di Gesù e attraverso tale presenza, cioè mediante l'invocazione del suo Nome. A partire dall'Athos del periodo bizantino, la formula abitualmente impiegata è: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”.
Formula implicitamente trinitaria:
- la parola “Signore” confessa la divinità di Gesù;
- la parola “Dio”, come in tutto il cristianesimo antico, designa il Padre, sorgente della divinità;
- la parola “Cristo”, cioè l'unto, evoca lo Spirito nel quale il Cristo è generato e che costituisce l'unzione messianica del Figlio.
Il Nome è invocato seguendo il ritmo del respiro, immagine in ogni essere umano del Soffio divino, poiché, come dice Giovanni Damasceno, “lo Spirito è l'enunciazione del Verbo”. Il corpo umano è destinato a divenire “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19); il respiro lo si può non tanto dominare (non facciamo dello yoga), bensì offrire, pacificare, al fine di rappacificare tutto il nostro essere. L'ingiunzione evangelica e paolina di “pregare senza interruzione” presuppone (e permette di comprendere) che la preghiera rappresenti l'essere stesso dell'uomo, la relazione che lo costituisce, la risposta dell”'immagine” al suo archetipo che, a poco a poco, la rende “somigliante”.
La formula non è un mantra. Molte altre formule, più brevi o più lunghe, sono state usate; ancora oggi il Kyrie eleison è spesso utilizzato prima di iniziare la vera e propria invocazione del Nome di Gesù.
Il “metodo” risale al monachesimo delle origini, e forse è radicato nella mistica ebraica della merkabah, il carro di fuoco del profeta Elia, carro al quale viene assimilato il cuore che, al culmine della preghiera, risulta come incendiato. La ripetizione di una breve formula per concentrare l'intelletto è universale, dallo hata-yoga indiano al nembutsu dell'amidismo giapponese (quanto al dhikr dei sufi, sembra che siano stati questi ultimi a mutuarlo dai monaci del cristianesimo orientale i quali tuttavia non cercano mai la trance ).
L'uso esicasta di tali tecniche, nondimeno, è fondamentalmente biblico e cristiano.
La postura raccomandata simboleggia la supplica di fronte al Trascendente: essa non esprime padronanza e serenità, ma un appello de profundis, a capo chino, spalle dolorosamente incurvate, e qualche volta con la testa tra le ginocchia, come Elia sul Carmelo (cf. 1Re 18,42), così che il corpo in preghiera indica l'Altro. Il contesto è ascetico, non per schiacciare la natura, ma per liberarla dagli elementi di morte che la imprigionano, per strappare le pelli morte, affinché la vita stessa del Cristo possa penetrare nella natura e farla risorgere. L'ascesi, certo, è digiuno, castità e vigilanza (népsis).
- Il digiuno, non solamente dal cibo ma anche dalle “passioni”, soprattutto dalla maldicenza, permette contemporaneamente ritiro e apertura, leggerezza interiore e accoglienza.
- La castità unifica l'anima e il corpo in uno slancio di comunione, sia essa relazione fedele nel matrimonio, o invece esaltazione e consumazione dell' éros nell'agàpe divina (che la Filocalia, più spesso chiama éros), in modo che il monaco diventi “separato da tutti e unito a tutti”.
- La veglia è l'attesa dello Sposo che viene nel mezzo della notte, illuminando in maniera pasquale le tenebre. Gli esicasti praticano il sonno breve e interrotto, la veglia notturna, in parte liturgica, e in parte dedicata alla “preghiera di Gesù”, come l'ha richiesta ai suoi monaci il padre spirituale contemporaneo Iosiph l'Esicasta.
Così articolata, la via esicasta comporta tre tappe principali:
- la pràxis,
- la physikè theoria,
- la théosis.
La pratica (”pràxis”)
E’ il combattimento - la “pratica” per la custodia dei comandamenti, per liberarsi dalle “passioni” e cominciare a prendere coscienza della grazia battesimale. Le “passioni” sono le idolatrie, le illusioni che s'impadroniscono dell'uomo, lo “possiedono” (nel senso di una possessione diabolica), lo traviano, o gli fanno cambiare direzione oppure bloccano le sue forze originariamente buone. La passione principale è la morte, che affascina l'uomo e al tempo stesso lo riempie di angoscia. La chiave della metànoia, che è il ribaltamento di tutto il nostro modo di cogliere il reale, è dunque la “memoria della morte”, con la quale l'uomo, scoprendo in sé questo abisso, vi scopre altresì il Cristo che non cessa di discendere agli inferi per riportarlo alla vita. E' l'esperienza, sempre da rinnovarsi, della grazia battesimale: “Grazia perfetta del santissimo Spirito che il Signore ha effuso nei nostri cuori come seme divino attraverso il battesimo”, scrive Nicodemo. Il battesimo (la Filocalia ne parla molto di più che dell'eucaristia, citata solitamente in termini fortemente metaforici o in testi tardivi) è così la “radice della nostra resurrezione”. Il “dono delle lacrime” esprime questo rovesciamento: lacrime “ascetiche” anzitutto, quando scandagliamo l'abisso della morte; lacrime “pneumatiche”, spirituali, quando comprendiamo con tutto il nostro essere che Cristo si frappone tra il nulla e noi, e dunque che il nulla non esiste più.
Nell'ascesi - la pràxis -, come in seguito nella contemplazione, la Filocalia rifiuta ogni immaginazione; tuttavia l'esicasta vive in un mondo di icone, cioè di immagini che egli attraversa per diventare a sua volta icona. Nel dialogo tra Massimo il Kausokalyba e Gregorio il Sinaita, Massimo, interrogato sullo sbocciare in lui della preghiera continua, spiega che il suo cuore è stato infiammato da un raggio di fuoco scaturito da un'icona della Madre di Dio.
Le “passioni” mascherano e al tempo stesso vendono a basso prezzo quella passione fondamentale che è la morte. La Filocalia ne enumera sette o Otto: l'avidità (l'ingordigia), la dissolutezza, l'avarizia, la collera (che comprende l'odio e l'invidia), la tristezza (”tristezza per la morte”, dice san Paolo), la pigrizia (come torpore spirituale), la vanagloria e l'orgoglio. Due di esse, l'avidità e l'orgoglio, sarebbero le “madri” delle altre; entrambe esprimono il ripiegamento del mondo attorno all'io (ciò che Massimo chiama philautia), un narcisismo spirituale.
Nella vita di chi ha fatto esperienza della resurrezione, al posto delle passioni si sostituiscono le “virtù”, oppure la passione è trasformata in virtù attraverso la liberazione e “pneumatizzazione” della forza che quella passione monopolizzava. Le virtù sono forze “divino-umane”, nella misura in cui in Cristo e per mezzo di lui le forze dell'umano sono vivificate dalle energie divine di cui esse sono un riflesso.
Le “virtù” - fede, timore di Dio, umiltà, continenza, pazienza, mitezza, speranza -, hanno il loro culmine nell'impassibilità (apdtheia) che ne è la sintesi. “L'impassibilità, dice Massimo il Confessore, non esclude affatto l'amore, ma lo genera”. Infatti, l'impassibilità apre l'uomo all'amore di Dio per le sue creature. Essa cambia il nostro rapporto con il tempo: quest'ultimo non tende più al nulla, ma al Regno, e l'angoscia è sostituita dalla speranza. Chi sa - mediante una conoscenza amorosa - che il Cristo è risorto, e che dunque è presente in lui, in ogni essere e in ogni cosa, può “amare i propri nemici”, come richiede l'Evangelo, e può “abbattere il muro di separazione che noi stessi abbiamo costruito”, come dice Giovanni Climaco. L'impassibilità affina sentimenti, intuizioni, impressioni, essa permette di “sentire” gli altri come se fossimo dentro di loro, e consente di esprimere attenzione e delicatezza pur mantenendo un certo distacco. Essa è libertà interiore. Nello stesso tempo, l'uomo riceve con essa una dignità umile e regale: “Sii come un re nel tuo cuore, sul trono dell'umiltà. Tu comandi al riso di venire, ed egli viene. Tu comandi alle lacrime di venire, ed esse vengono. Tu comandi al corpo, non più tiranno ma servo: fa' questo, ed egli lo fa”.
La contemplazione della natura ('physikè theorìa”)
Una volta purificato e unito al cuore, l'intelletto diventa capace di penetrare la realtà creata con una profondità che sorpassa ogni altra forma di conoscenza, come per una sorta di anticipazione escatologica. Infatti, scrive Massimo nella sua Mistagogia, “il mondo intelligibile (spirituale) nella sua interezza sembra impresso nel sensibile in maniera misteriosa, e in forme simboliche per coloro che sanno vedere, e l'intero mondo sensibile è contenuto in quello intelligibile … Il loro operare è come quello di una ruota dentro a un'altra ruota, come dice il grande veggente Ezechiele quando parla, come mi sembra, di questi due mondi”.
Il Logos, dice Massimo, è il soggetto divino di tutti i logoi, parole essenziali che reggono le cose. L'uomo loghikòs, immagine personale del Logos, è chiamato a diventare il loro soggetto umano. Lo diventa in Cristo, attraverso di lui rivela queste parole essenziali, nello Spirito, non per appropriarsene ma per offrirle dopo aver dato loro un “nome”, secondo il comando ricevuto da Dio nella Genesi, cioè dopo aver impresso su di esse il suo genio creatore. “Tutto prega, tutto canta la gloria di Dio”, scriveva il pellegrino russo, aggiungendo altrove: “Compresi anche ciò che la Filocalia chiama la conoscenza del linguaggio della creazione, e vidi come è possibile parlare con le creature di Dio”.
Questa “contemplazione della natura”, particolarmente cara alla tradizione ortodossa, può non soltanto permetterci di approfondire la conoscenza razionale, come ha sottolineato padre Dumitru Staniloae, ma anche donare senso e gusto a ogni cultura umana. Uno dei più grandi poeti del XX secolo, Rainer Maria Rilke, non ha forse scritto, per definire la propria arte, che essa consisteva nel “raccogliere il miele del visibile nel grande alveare d'oro dell'invisibile”?
Per Massimo il Confessore il mondo, quando lo si vede alla luce dei logoi divini, appare come un'immensa eucaristia: le essenze delle cose sensibili sono il “corpo” di Cristo e quelle dei mondi spirituali il suo sangue . La “contemplazione della natura può, in effetti, diventare anche visione dei mondi angelici e delle cose future.
Se il mondo è una “prima Bibbia”, l'altra incorporazione del Verbo che offre le chiavi per comprendere la prima è la Scrittura. In Cristo, infatti, la Parola cessa di essere ombra e mistero.
Lo stesso Spirito agisce nelle profondità del mondo, in quelle della Scrittura e nel cuore dell'uomo. La lettura orante della Scrittura ha dunque anch'essa un sapore eucaristico. All'infuori della “preghiera di Gesù”, il solo metodo di preghiera indicato dalla Filocalia è tale lettura. In modo particolare la recitazione dei salmi: “Quando ci lasciamo penetrare dagli stessi sentimenti con cui il salmo è stato composto, è come se ne diventassimo gli autori … l'anima si apre a Dio con gemiti inesprimibili”. Quando un'espressione fa trasalire il cuore bisogna fermarsi, restare immobili e lasciar penetrare dolcemente in tutto il nostro essere questo tocco divino.
“Così si accede alla seconda tappa”, scrive Staniloae, “ora il Logos divino si mostra attraverso il velo trasparente della natura e della Scrittura … questa visione si chiama contemplazione naturale, non perché si realizzi con l'aiuto esclusivo delle potenze della conoscenza - essa è sempre sostenuta e pervasa dalla grazia -, ma perché da una parte si dirige verso la natura esteriore, e dall'altra presuppone una natura umana restaurata”.
La deificazione (”théosis”)
Sullo sfondo sempre necessario della metànoia, il cuore-spirito è incendiato da una luce che viene dall'aldilà, che non è interiore né esteriore. Esso passa attraverso un succedersi di negazioni che, al di là delle affermazioni e delle negazioni stesse, divengono “preghiera pura, pura attesa, in cui avviene, o attraverso un susseguirsi di sprazzi di una grande dolcezza, o nell”'improvvisamente” caro a Simeone il Nuovo Teologo, l'irrompere del fuoco e quindi della luce. “Nella sovrabbondanza della sua bontà, Dio”, scrive Gregorio Palamas, “esce in qualche modo dal suo abisso, esce da sé, dalla sua trascendenza, e si unisce a noi attraverso un unione al di là di ogni comprensione … E perché non dovrebbe discendere, lui che è disceso fino ad assumere un corpo, un corpo di morte e di morte sulla croce?”.
Il luogo - l' òrganon - della deificazione, è infatti Cristo, e più in particolare la sua morte-resurrezione. L'anima, trascinata, sollevata dallo Spirito negli spazi trinitari, partecipa all'eterna nascita del Figlio, intuisce l'abisso del Padre e, come ha sottolineato recentemente padre Boris Bobrinskoy, la sua misericordia smisurata. Mistero, in Dio stesso, dell'unità nell'alterità e dell'alterità nell'unità. “Dimore” innumerevoli della casa del Padre. En-stasi ed estasi simultanee.
Questa “piccola resurrezione”, di cui parla Evagrio Pontico negli Apoftegmi, anticipa la parusia. Nella “preghiera pura”, l'intelletto unito al cuore “vede il proprio stato come simile allo zaffiro o al colore del firmamento”. Tuttavia l'anima cristiana, nella sua umiltà e nel suo desiderio non si dissolve in questa luce interiore: muore a se stessa per ritrovare, nell'unione stessa, l'alterità di Dio, e del prossimo. Allora avviene l'infinito incontro: “Talvolta è una gioia ineffabile e di grandi slanci … altre volte, tutta l'anima scende e si tiene nascosta in abissi di silenzio … a volte, infine, l'anima è a tal punto ricolma di dolorosa tenerezza, che solo le lacrime la possono lenire”. Più Dio riempie l'anima della sua luce, più essa si distende verso la sorgente sempre al di là di questa luce, per ricevere ancora e desiderare ancora di più, all'infinito: “L'amore è un abisso di luce, una sorgente di fuoco. Più cola, più rende assetato chi ha sete … Per questo l'amore è un'eterna progressione”.
Il criterio di un autentico progresso spirituale, diceva lo starec Silvano, è l'amore per i nemici. Tutti gli uomini, in Cristo, appaiono “membri gli uni degli altri”, l'unico Adamo nell 'ultimo Adamo. Nello stesso tempo, ognuno è differente e incomparabile.
“Fratello io ti raccomando questo: che in te il peso della compassione faccia pendere la bilancia fino a che tu possa sentire nel tuo cuore la compassione stessa che Dio ha per il mondo” (Isacco il Siro).
“Sorge in me, dentro il mio povero cuore, come il sole … io so che non morirò, perché sono dentro la vita e perché ho l'intera vita che scaturisce dentro di me” (Simeone il Nuovo Teologo).
Destino della “Filocalia”
Se, da una parte, Nicodemo ha elaborato la Filocalia - vera enciclopedia della luce increata - per far fronte all'enciclopedia degli illuministi francesi, egli è nondimeno un bell'esempio di grande spirituale aperto al senso creatore della storia. Così, si è interessato a certe forme occidentali d'ascesi e di mistica, che egli riteneva convergenti con le vie della propria tradizione. Ha tradotto e adattato - aggiungendo per l'appunto un capitolo sulla preghiera di Gesù - il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, un teatino napoletano, divenuto il Combattimento invisibile, e una parafrasi, realizzata da un religioso veneziano, degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.
Diffusa in Grecia da alcuni monaci scacciati dall'Athos all'epoca della disputa dei collivadi, la Filocalia non è stata ripubblicata in questo paese che nel 1893. In compenso, nel XX secolo, la grande edizione del 1957-1963, ripresa nel 1974-1976, ha favorito il rinnovamento filosofico e teologico - su tutti il nome di Christos Yannaras - e la nuova fioritura della vita monastica, soprattutto all'Athos, con gli scritti di Iosiph l'Esicasta (+ 1954) e Paisios di Cappadocia (+ 1995). E' così che all'Athos, in certi monasteri, le prime ore della notte sono dedicate alla preghiera di Gesù, cosa che implica una certa riduzione degli uffici liturgici: ricorso al silenzio e alla centralità della persona contro un comunitarismo talvolta un po' pesante.
Già nel XIX secolo, un rinnovamento filocalico profondo s'era prodotto nei paesi romeni e soprattutto in Russia (che a quei tempi comprendeva l'Ucraina). Il ruolo essenziale fu espletato da uno starec ucraino: Paisij Velickovskij. Questi era nato a Poltava, sua nonna era ebrea, e si può quindi ipotizzare un qualche contatto tra neo-chassidismo e neo-esicasmo. Disgustato dall'insegnamento mediocremente scolastico dell'Accademia di Kiev, egli si rifugiò in Moldavia, dove sembra fu iniziato alla tradizione esicasta dallo starec Basilio di Poiana Màrului (del resto senza trovare in lui quel padre spirituale che mai riuscirà a trovare). Dopo un soggiorno all'Athos, dove divenne padre di diverse decine di monaci, lui che era stato orfano, Paisij trovò il suo vero posto in Moldavia, dove diresse, a Neamt soprattutto, questa volta alcune centinaia, anzi quasi un migliaio di discepoli. Là egli organizzò gruppi di traduttori e con essi procedette alla pubblicazione dei testi patristici e infine della Filocalia. Questa, tradotta in slavone, fu pubblicata in Russia nel 1793. Paisij, che aveva ricevuto il dono delle lacrime, morì il 5 dicembre 1794.
I suoi discepoli russi portarono al cuore della Russia la preghiera esicasta, facendo rivivere la tradizione di Sergio di Radonezv, Nil Sorskij e Massimo il Greco, tradizione sepolta sotto l'illusoria edificazione di una società sacrale.
Preghiera del cuore e paternità spirituale rinnovarono la vita monastica e permisero ad alcuni grandi starcy di toccare una parte importante dell'intelligencija.
La stirpe degli starcy di Optina è particolarmente conosciuta. Essa culmina nella figura di alta spiritualità e di grande cultura dello starec Ambrogio (+ 1891) che conobbe Dostoevskij, Solov'ev e Leont'ev.
I Racconti di un pellegrino russo, apparsi a Kazan' verso il 1870, precisano il “metodo” mostrando come coordinare, per l'invocazione, il ritmo del respiro e i battiti del cuore.
Il vescovo Teofane il Recluso compila una grande Filocalia russa (Dobrotoliubie, amore del bello), pubblicata nel 1877; egli esclude da essa i capitoli propriamente “teorici”, al tempo stesso speculativi e contemplativi, e tralascia gli aspetti “tecnici” del “metodo” (l'utilizzo del respiro, il luogo del cuore, la luce interiore). In compenso sviluppa la dimensione morale e affettiva, incorporando nella sua edizione ampi testi di Efrem il Siro, Doroteo di Gaza e Teodoro Studita.
La Filocalia russa riflette la sensibilità di un'epoca segnata dal pietismo. Monaci e laici si sono nutriti di questi testi, il che conferisce alla loro spiritualità un certo fervore psicologico a tratti lirico.
Purtroppo, nel 1912-1913, una dottrina un po' rozza, l'onomatodossia (o onomatolatria, per i suoi detrattori) si sviluppa tra i monaci russi dell'Athos. Gli onomatodossi ritengono divino il Nome stesso di Gesù. Il Sinodo della chiesa russa chiede l'intervento dello stato, che invia alcune navi da guerra di fronte alla penisola athonita; i fucilieri di marina sbarcano e arrestano i monaci compromessi. Questi vengono esiliati nel Caucaso dove, più tardi, saranno massacrati dai bolscevichi. Questa vicenda sconvolse gli ambienti intellettuali dell'ortodossia russa. Berdjaev scrisse un violento articolo contro “coloro che soffocano lo Spirito”. In tali ambienti, la teologia ufficiale, soprattutto morale e psicologica, fu sostituita da una teologia “ontologica” e da una profonda riflessione sul linguaggio.
In terra romena, fino alla secolarizzazione massiccia degli anni sessanta del XIX secolo, che inflisse un colpo tremendo al monachesimo e ai suoi legami con l'Athos, si continuò, sulla scia di Paisij, la costituzione di un'importante biblioteca patristica e bizantina, comprendente le opere di Simeone il Nuovo Teologo e di Gregorio Palamas; al monastero di Cernica, il movimento paisiano assunse una diversa sfumatura, nel senso di un più grande servizio sociale, ad opera dell' igumeno Calinic. Dopo il 1860, la tradizione filocalica si perse, eccetto in qualche eremitaggio.
È alla vigilia del secondo conflitto mondiale, in un'epoca di rinnovamento letterario e filosofico, che si opererà in Romania una riassunzione dei fondamenti della vita spirituale. Verso il 1935, padre Dumitru Staniloae, allora professore all'Accademia teologica di Sibiu, pubblica uno studio su La vita e l'opera di san Gregorio Palamas (Sibiu 1938), con la traduzione di quattro brevi scritti di quest'ultimo. In tal modo, nonostante i tempi non siano propizi, Staniloae finisce per progettare una traduzione della Filocalia. Egli non esita, per stabilire i testi, a utilizzare i lavori degli eruditi occidentali, e soprattutto commenta e spiega questi testi sia nella prospettiva della tradizione, sia in quella delle ricerche della cultura contemporanea e alla luce dei problemi posti da quest'ultima. Egli cita i filosofi religiosi russi della sua epoca, pensatori francesi come Maurice Blondel, o tedeschi come Martin Heidegger. All'indomani della guerra e prima della totale presa di potere comunista nel paese, la sua impresa si colloca in un rinnovamento globale della vita esicasta, con circoli di monaci e di laici come il “Roveto ardente”. Così appaiono dieci volumi dal 1945 al 1948, data del colpo di stato totalitario, e poi dal 1965 (nel frattempo padre Dumitru era stato imprigionato) al 1981, epoca della svolta nazionalista del regime.
“Non è sufficiente comandare all'uomo, con belle parole, di vivere secondo la volontà di Dio; bisogna guidarlo … e mostrargli come progredire … verso la luce della conoscenza di Dio … è per questo che gli scritti filocalici ritengono così importante la custodia della mente. Si arriva a vincere realmente le proprie passioni solo quando si è abituati a scrutare attentamente ciascun pensiero per scacciarlo spontaneamente se esso è malvagio, o purificarlo e rivestirlo della memoria (anamnesi) di Dio”.
L'ordine di presentazione dei testi fu da principio cronologico, ma il secondo e terzo volume sono interamente dedicati a Massimo il Confessore. Il secondo volume contiene anche il Liber asceticus e le Quaestiones et dubia, il terzo volume le Quaestiones ad Thalassium. Si trattava di far fronte all'invasione di un marxismo che pretendeva di essere totalizzante ed esclusivo, offrendo una visione d'insieme del pensiero cristiano, e l'opera di Massimo rappresenta la piena maturità della grande patristica. I commenti di padre Dumitru assumono così l'ampiezza di un vero e proprio trattato. “È una legge suprema - conclude Staniloae : tutto ciò che è mortale deve morire per ricevere la resurrezione … O la creatura, se vuole vivere per Dio, s'immola misticamente in Lui, oppure è uccisa dal suo stesso rifiuto. Bisogna scegliere una morte: o la morte verso la vita, o la morte verso la morte”.
Il quarto e quinto volume presentano i padri ascetici dal VII al X secolo, tra i quali molti sinaiti, come nella Filocalia greca. Il sesto volume è dedicato a Simeone il Nuovo Teologo. Il settimo ai grandi bizantini: Niceforo, Teolepto, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas (a partire dai testi stabiliti per l'edizione greca di Chrestou). L'ottavo volume comprende Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Callisto Anghelikoudes, Callisto Kataphyghiotes e una storia dell'esicasmo in Romania. Il nono volume riporta il testo completo della Scala di Giovanni del Sinai (Climaco). Il decimo volume è dedicato a Isacco il Siro.
A differenza della Fiocalia russa di Teofane il Recluso, questa Filocalia riprende e sviluppa lo spirito speculativo e mistico così come il “metodo” corporeo. Sono anche aggiunti alcuni testi di Massimo il Confessore e di Gregorio Palamas. L'insieme ha un carattere fortemente teologico e dogmatico.
L'ultimo episodio, per il momento, di questo destino, è l'incontro tutt'ora in corso tra l'occidente e la Filocalia. La strada è stata aperta nel 1953 con la pubblicazione della Petite philocalie de la prière du coeur, lunghi estratti molto ben tradotti e presentati da Jean Gouillard e presto riprodotti anche nelle principali lingue dell'Europa occidentale. I testi sono nello stesso ordine seguito dalla grande Filocalia greca, le note fanno il punto delle ricerche.
Poi sono venute le traduzioni integrali: in inglese nel 1979-1984 (a cura di Gerald E. H. Palmer, Philip Sherrard e Kallistos Ware); in italiano, nel 1982-1987 (a cura di alcune monache di Monteveglio); in francese, in fascicoli e poi in edizione completa nel 1995 (a cura di Jacques Touraille).
La diaspora russa ha certamente giocato un ruolo importante in questa diffusione, dato che le scuole neo-patristica e neo-palamita consideravano la Filocalia e l’esicasmo come la messa per iscritto contemplativa dell'esperienza cristiana. Tuttavia questa corrente è sfociata piuttosto in un notevole sviluppo della teologia sacramentale; tra i suoi grandi rappresentanti, solo Boris Bobrinskoy ha tentato di stabilire un legame tra l'esicasmo e tale spiritualità eucaristica.
Sono personalità isolate come André Scrima, il “monaco della chiesa d'Oriente” (Lev Gillet), Kallistos Ware, Elisabeth Behr-Sigel, che hanno fatto conoscere la “preghiera del cuore”. E forse soprattutto le molte traduzioni dei Racconti di un pellegrino russo.
La Filocalia era attesa, ed è stata profondamente recepita. La sete di vita spirituale è immensa. Crescono l'interesse per l'India e il buddismo, si inizia ad abbozzare un'antropologia capace di integrare il corpo con il cosmo. Ed ecco che appare, con la Filocalia, un cristianesimo che pur non ignorando alcun elemento delle tecniche ascetiche è però al servizio della persona e della comunione, e non di una mistica fusionale. Certo, le ambiguità non mancano: alcuni, del “metodo”, considerano solo ciò che è più o meno simile al dhikr o al nembutsu. Ci si trova allora in pieno sincretismo. Ma altri, molto più numerosi, pregano la “preghiera di Gesù” perché lo amano e perché sentono in tal modo risvegliarsi il loro cuore.
Conosco molti monaci e laici, cattolici, anglicani, protestanti, veri “cercatori di Dio” al di là di ogni appartenenza confessionale che, nella discrezione e nel silenzio, sono impegnati su questa via. Tutta la loro visione di Dio, dell'uomo, della cultura ne risulta riplasmata.
La maggior parte degli ortodossi sono ignari di tutti questi sviluppi. E tuttavia, nella situazione attuale, piena di pericoli e promesse, si tratta di una immensa e feconda responsabilità.
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Traduzione dal francese a cura della Comunità di Bose