sabato 20 novembre 2010

Commento alla Regola di san Benedetto di Madre Anna Maria Cànopi O.S.B. Abbadessa del Monastero Mater Ecclesiae dell’Isola San Giulio, dedicato al tema “Miti nell’accettare la disciplina del coro” (RB 45, Correzione dei fratelli che sbagliano nell’oratorio)

Alla comprensione spirituale di questo capitolo della santa Regola ci sia d’aiuto anche l’intercessione di santa Gertrude. Tutta la vita contemplativa di questa santa monaca benedettina scaturisce dalla sua passione per il sacrificium laudis. Nella sua viva partecipazione alla sacra liturgia ella sperimentava la grazia di intuire i misteri del Signore, e poi di compenetrarli, di viverli nella sua situazione esistenziale, di vederli in atto nella situazione della sua comunità monastica e di tutta la Chiesa.
Santa Gertrude è una mistica formata sulla liturgia, quindi sulla Sacra Scrittura, di cui la liturgia è costituita. I suoi slanci non erano superficiali entusiasmi o strane fantasticherie, ma prendevano sempre spunto dalla parola di Dio ascoltata, cantata, pregata in coro.
Ella sentiva molto intensamente la realtà della comunione tra la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste; sapeva di trovarsi in coro non soltanto con le sue consorelle, ma anche con tutti gli angeli e i santi del Paradiso. Nel suo intimo contemplava la corte celeste, godeva di vedersi già nella schiera delle vergini che seguono l’Agnello dovunque vada.
Come sappiamo, anche santa Gertrude fece però un lungo cammino prima di arrivare a gustare le cose di Dio, ad assaporare le sue parole e a tradurle in mistiche elevazioni così come sono giunte a noi. Queste sue elevazioni sono proprio un’eco e quasi un compendio della liturgia quotidiana.
Consideriamo dunque oggi i passi della santa Regola che riguardano l’attenzione nell’eseguire la preghiera corale e qualsiasi altra cosa, dovunque ci si trovi. Come celebrare la divina liturgia in coro, e come continuare a celebrarla nel lavoro, nello studio, nel riposo, nei vari momenti della giornata?
Non riteniamo pedanteria l’insistenza di san Benedetto sul buon comportamento, perché se si comincia a “lasciar andare” un po’ in qualche cosa, si diventa trasandati in tutto. Accogliamo invece con animo dilatato l’esortazione della Regola alla vigilanza in tutto e all’umiltà nel manifestare e riparare subito gli sbagli, poiché sappiamo a Chi stiamo prestando servizio, quando siamo in coro o dovunque. Quel che importa non è l’azione in sé, ma la sua motivazione e il suo fine. Rende importante l’azione Colui per il quale essa è compiuta.
Dunque non si può prendere nulla alla leggera, né in coro, né in altri ambienti e momenti della vita monastica, perché stiamo sempre al servizio di colui che è il Santo e alla cui presenza si deve essere pervasi di santo timore e spirito di profonda adorazione. Non ci venga a noia quindi la disciplina del nostro servizio divino, ma sappiamo invece abbracciarla per amore, come un mezzo per esprimere meglio la nostra devozione a colui che ci ha chiamato a servirlo, che ci ha concesso l’onore di stare alla sua presenza giorno e notte.
“Servite a Cristo Signore” dice l’Apostolo (Col 3,24). Fare tutto con grande serietà, con diligenza, in spirito di filiale libertà. La serietà e la delicatezza in tutto sono dunque un’esigenza interiore di chi ama, non un’osservanza di leggi esteriori. Se questo non è chiaro, è facile diventare osservanti di rigore inflessibile o intolleranti di una disciplina esteriore, che sembra opporsi alla nostra naturale spontaneità.
Il buon zelo raccomandato dalla Regola ha un altro contenuto:
“Se ad un fratello capita di sbagliare recitando un salmo, un responsorio, un’antifona o una lezione, ed egli non si umilia e non ripara subito lì sul posto, davanti a tutti, gli sia imposta una punizione più severa, proprio perché non ha voluto spontaneamente riparare con umiltà la mancanza che aveva commesso per negligenza”. [RB 45,1-2]
È evidente: non si dice che questi tipi di sbagli sono gravi peccati; non si grida subito allo scandalo e non si fa un dramma.
Se uno sbaglia per negligenza o insufficiente attenzione e rende così meno bella la lode di Dio in coro, portando anche disturbo alla preghiera di tutti, subito egli stesso, spontaneamente – perché sente il bisogno di farlo – si inginocchia per riconoscere la sua mancanza e chiederne perdono. Nessuno ve lo butta, nessuno ve lo costringe; anzi, sono tutti pronti a sollevarlo, appena egli si umilia. Del resto, che grande fatica, che dura penitenza è inginocchiarsi e chinare il capo un momento, per poi inserirsi di nuovo nel canto?
Ma se uno non lo fa spontaneamente e continua a comportarsi con disattenzione e trascuratezza, non dando importanza agli sbagli che commette, e alle ammonizioni che riceve, allora è necessario intervenire per sensibilizzare la sua coscienza e aiutarlo ad accettare la disciplina. L’imposizione di una penitenza viene dunque come medicina correttiva quando nel fratello non c’è l’umile, spontanea disposizione a riparare.
La riparazione consiste in un gesto di umiltà semplicissimo, che è come dire: Scusate, sono io che ho sbagliato, sono io che non sono stato attento; me ne dispiace e mi propongo di essere più vigilante.
La punizione prevista per chi non si umilia spontaneamente non è da vedersi in termini di rigore e di intransigenza per far riparare ai danni causati, ma in termini di sollecitudine, di amore per un membro che comincia a manifestare sintomi di malattia spirituale con dannosa ripercussione su tutto il corpo della comunità.
Tutti siamo fragili e fallibili; quando la vigilanza non basta a farci evitare gli sbagli, la cosa migliore è riconoscere con umiltà e riparare con senso di responsabilità. È quanto san Benedetto continua a suggerire nel capitolo seguente.

[Anna Maria Cànopi O.S.B., Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria della Regola di san Benedetto in chiave di mansuetudine, 4a ed., Edizioni La Scala, Noci (Bari) 2007 pp. 329-332]

sabato 13 novembre 2010

VITA DI SAN PAOLO PRIMO EREMITA





San Paolo di Tebe è onorato come il primo abitante del deserto e primo eremita cristiano. Visse la sua ascesi in Egitto, nella regione della Tebaide, fino alla morte nell’anno 341, all’età di 113 anni. Subito dopo la sua nascita al cielo molti vollero imitarne la vita, riempiendo il deserto e creando veri e propri centri monastici, per questo condivide con sant’Antonio il grande il titolo di padre del monachesimo. Ciò che conosciamo di lui lo dobbiamo alla penna di san Girolamo, che raccolse nella 
Vita Sanctii Pauli primi eremitae le testimonianze orali sulla vita di Paolo. Alla morte del santo Antonio ne seppellì il corpo nei pressi della grotta dove aveva vissuto. Nel XII secolo le reliquie del santo furono trasferite dall’Egitto a Costantinopoli e poste nel monastero della Madre di Dio Peribleptos, per ordine dell’imperatore Manuele (1143-1180). In seguito alle crociate furono trafugate a Venezia, e infine portate a Ofa in Ungheria. Parte della sua testa si trova a Roma.
La Chiesa Ortodossa ne fa memoria il 15 gennaio, la Chiesa Copta il 2 di Amshir, i Romano-Cattolici il 10 gennaio.
 

Prologo
1. Sono molti coloro che, a più riprese, hanno posto la questione di chi è stato il primo instauratore della vita eremitica. Taluni, infatti, risalendo piuttosto lontano, identificarono tale instauratore, rispettivamente, con Elia e con Giovanni dei quali ci sembra che il primo sia stato più assai d’un semplice monaco e il secondo abbia cominciato a fare il profeta prima ancora della nascita. Altri poi – ed è questa l’opinione universalmente accettata –, sostengono che fu Antonio l’iniziatore di questo ideale, ma la cosa è vera solo in parte, giacché non tanto lui stesso fu il primo di tutti, quanto piuttosto da lui trasse incitamento lo zelo di tutti. Dal canto loro, Amathas e Macario, discepoli di Antonio – fu il primo di essi che diede sepoltura al maestro – affermano a tutt’oggi che il primo instauratore di un tal genere di vita, se non proprio del nome relativo, è stato un certo Paolo di Tebe: opinione questa che io pure condivido. Vi sono di quelli che, abbandonandosi al loro estro inventivo, ti sfornano fantasie di questo tipo: “In una grotta sotterranea viveva un uomo, chiomato dalla testa ai piedi”, e ti architettano cose talmente incredibili che sarebbe un perditempo volerle passare in rassegna. E dato che la loro falsità è semplicemente spudorata, non sembra neppure necessario preoccuparsi di confutare una simile impostura. Pertanto, siccome a proposito di Antonio sono già apparse accurate pubblicazioni, sia in greco che in latino, mi son prefisso di comporre un piccolo scritto sulle prime ed ultime vicende della vita di Paolo. E così ho pensato, più per il fatto che si trattava di notizie inedite, che per un atto di fiducia nelle mie capacità. Come poi lo stesso Paolo abbia trascorso la parte centrale della sua vita, e quali persecuzioni diaboliche abbia dovuto sopportare, nessuno lo può sapere con certezza.

Il tempo delle persecuzioni
I santi Antonio e Paolo, Cairo – Coptic Museum
2. Al tempo di Decio e di Valeriano, persecutori dei cristiani, allorquando Cornelio a Roma e Cipriano a Cartagine affrontarono con gioia il martirio, una selvaggia crudeltà seminò distruzione in molte Chiese dell’Egitto e della Tebaide. La brama più ardente di ogni cristiano, in tali circostanze, era quella di cadere sotto la spada, per il nome di Cristo. Ma l’astuto nemico era tutto preso dal desiderio di uccidere le anime, non i corpi, e quindi escogitava i più squisiti supplizi, capaci di far morire a poco a poco. Come scrive lo stesso Cipriano, che subì il martirio nella persecuzione di Valeriano, “non era concesso di morire a quanti lo bramavano”[1].
Perché a tutti sia nota la crudeltà di costui, voglio qui ricordare un paio d’esempi.  3. Trovatosi di fronte ad un martire che perseverava nella fede e trionfava in mezzo alle torture dei cavalletti e delle lamine arroventate, il tiranno lo fece cospargere tutto quanto di miele, ed esporre supino, con le mani legate dietro la schiena, ai raggi cocenti del sole. Si prefiggeva naturalmente di far cedere alle punture delle mosche quel martire, che aveva superato il supplizio delle lamine arroventate. Un altro martire, ancora nel fiore della sua giovinezza, egli lo fece portare in un giardino ricolmo di delizie. Quivi, fra candidi gigli e vermiglie rose, mentre lì accanto serpeggiava un ruscello col suo dolce mormorio, e tra le foglie degli alberi spirava un venticello dal suono leggero, lo fece adagiare sopra un letto di piume, e perché non potesse levarsi da quella posizione, lo fece avviluppare da una fitta rete di soavi ghirlande. Mentre si allontanavano tutti gli altri, si fece avanti una meretrice di stupenda bellezza e cominciò ad abbracciare il collo del giovane con teneri amplessi, e poi – cosa peccaminosa perfino a dirsi – a toccargli con le mani le parti virili, affinché, una volta eccitato quel corpo alla libidine, vi si buttasse sopra come una spudorata trionfatrice. Quel soldato di Cristo non sapeva che fare né dove voltarsi. Colui che non si era piegato davanti ai tormenti, stava per essere sopraffatto dal piacere dei sensi. Infine, ispirato dal cielo, si tagliò con un morso la lingua e la sputò in faccia a quella donna che lo stava baciando; fu così che l’intensità del dolore fisico lo rese capace di superare gl’istanti della libidine[2].

Paolo fugge nel deserto
Fotios Kontoglou, san Paolo di Tebe
4. Orbene, mentre accadevano tali fatti, nella Tebaide inferiore, Paolo, all’età di circa sedici anni, assieme a sua sorella già maritata, si trovò, dopo la morte di ambedue i genitori, in possesso di una vasta eredità. Era molto istruito nelle lettere greche ed egizie ed aveva un animo mite e traboccante di amore verso Dio. Quando scoppiò la bufera della persecuzione, si ritirò in una sua villa piuttosto lontana ed appartata. Ma dove mai non sospingi il cuore degli uomini, o fame esecranda dell’oro? Il marito della sorella concepì il disegno di denunciare colui, che avrebbe dovuto nascondere. Come suole accadere, non riuscirono a smuoverlo da una tale scelleratezza né le lacrime della moglie, né l’affinità di sangue, né il timor di Dio che scruta ogni cosa dall’alto. Gli stava sempre alle costole, lo incalzava, sfoderava tutta la sua crudeltà, né più né meno come avrebbe dovuto esercitare la sua pietà. Ben se ne accorse l’avvedutissimo giovane e cercò rifugio in luoghi montuosi e deserti, per aspettarvi la fine della persecuzione. Ma eccolo poi tramutare in una scelta volontaria quel ch’era stato per lui una mera necessità.  5. Dopo aver ripetuto più volte la duplice operazione di avanzare a poco a poco e di concedersi delle pause nel cammino, s’imbatté finalmente in un monte roccioso, ai piedi del quale si apriva una caverna non molto vasta, ostruita da una pietra. Rimossa quest’ultima – giacché si trova in ogni uomo una grande bramosia di conoscere le realtà più nascoste –, perlustrando l’interno con avida cura, vi scorse un ampio vestibolo, aperto verso l’alto; tuttavia lo riparava, a guisa di tetto, una vecchia palma dai lunghissimi rami, che lasciava filtrare tanta luce da mettere in mostra una sorgente cristallina; le sue acque, appena scaturite dalla terra, subito, attraverso un piccolo foro, venivano risucchiate dalla stessa. Inoltre, sui fianchi corrosi del monte, sorgevano parecchie abitazioni, nelle quali si potevano scorgere incudini e martelli, ormai arrugginiti, di quelli che servono a coniar le monete. Infatti, riferiscono dei testi egiziani che là si trovava una zecca clandestina, all’epoca in cui Antonio si unì a Cleopatra.  6. Pertanto, affezionatosi a quella dimora che pareva gli venisse elargita dal Signore, Paolo vi trascorse tutta la vita nella preghiera e nel raccoglimento. La palma gli forniva cibo e vestito. E perché la cosa non appaia impossibile a nessuno, io chiamo a testimoni Gesù e i suoi angeli, di aver visto e di vedere tuttora, in quella parte del deserto che si trova al confine tra la Siria e la regione dei Saraceni, alcuni monaci, dei quali uno visse rinchiuso per trent’anni, cibandosi unicamente di pane d’orzo e d’acqua fangosa, e un altro, vivendo in una vecchia cisterna (che i Siri nella propria lingua chiamano Gubba), si cibava soltanto di cinque fichi al giorno. Tali fatti sembreranno incredibili solamente a coloro, i quali non credono che tutto è possibile a chi si lascia condurre dalla fede.

Antonio va alla ricerca di Paolo
7. Ma torniamo a quel punto, da cui ho preso le mosse. Mentre Paolo, giunto ormai all’età di centotredici anni, conduceva, qui sulla terra, una vita tutta celeste, Antonio, che aveva novant’anni, come lui stesso era solito dire, abitava in altro luogo solitario. Un giorno s’affacciò nella mente di Antonio l’idea che nel deserto non avesse preso domicilio nessun altro monaco perfetto, quanto era lui. Ma durante la notte, mentre dormiva, gli fu rivelata l’esistenza d’un altro monaco, assai più perfetto di lui, e gli venne ordinato di partire, per andare a visitarlo. Non appena spuntò l’alba, il venerando vecchio, sostenendo su di un bastone le deboli membra, si mise in viaggio per una meta a lui sconosciuta. Ormai era giunto il mezzogiorno e il sole dall’alto bruciava coi suoi raggi cocenti; ma egli non desisteva dal cammino intrapreso, dicendo: “Ho piena fiducia che il mio Dio mi farà vedere un giorno il compagno che mi ha promesso”. Non riuscì a dire altro e subito si vide davanti una figura, metà uomo e metà cavallo, come quella che la fantasia dei poeti ha chiamato ippocentauro. A quella vista, si arma la fronte col segno della croce, e domanda: “Ehi, tu, puoi dirmi in quale parte di questo deserto abita il servo di Dio?”. Ma quello, fremendo un non so che di barbaro, spezzando le parole più che pronunciarle, con la sua orrida bocca, irta di setole, si studiò di parlare soavemente. E, tenendo la mano destra, indicò la via desiderata; poi subito svanì dalla vista del monaco stupefatto, superando con rapido volo l’immensa distesa dei campi. Peraltro, non possiamo sapere se tutto ciò fu prodotto da una finzione del demonio, per incutergli paura, ovvero se il deserto, così fecondo di mostruosi animali, mette pure al mondo una simile bestia.
8. Pieno di stupore, Antonio procede ancora nel suo cammino, rimuginando tra sé e sé quanto aveva osservato. Ma ecco che subito, in mezzo a una convalle pietrosa, gli appare davanti un omiciattolo, dal naso adunco, dalla fronte irta di corna, con la parte inferiore del corpo terminante in zampe di capra. A tale spettacolo, Antonio, come un valoroso guerriero, si armò con lo scudo della fede e con la corazza della speranza[3]; ciò nondimeno, il suddetto animale, quale pegno di pace, gli offriva dei datteri per il suo sostentamento nel viaggio. Preso atto di quel gesto, Antonio si fermò e gli chiese chi fosse, ottenendo la seguente risposta: “Io sono un essere mortale, uno degli abitanti del deserto, che i pagani, delusi da diversi errori, onorano sotto il nome di Fauni, o di Satiri, o di Incubi. Ho una missione da parte dei miei compagni. Vogliamo infatti pregarti di intercedere per noi presso il comune Signore[4], che ben sappiamo esser venuto un giorno sulla terra, per la salvezza del genere umano: in tutto quanto il mondo si è diffusa la fama del suo nome”. Mentre quello così parlava, il volto del vecchio pellegrino si rigava di lacrime copiose, a testimoniare quella grande letizia che inondava il suo cuore. Gioiva infatti della gloria di Cristo e della sconfitta di Satana; e meravigliandosi al tempo stesso di riuscir a comprendere il linguaggio di quello, percuoteva la terra col bastone e diceva: “Guai a te, Alessandria, che al posto di Dio adori dei mostri! Guai a te, o città meretrice, nella quale si son dati convegno i demoni del mondo intero! Che dirai adesso? Le fiere proclamano Cristo, e tu veneri i mostri, al posto di Dio?”. Non aveva ancora terminate queste parole e subito la bestia cornuta fuggì via, come se andasse volando. Né alcuno si lasci trascinare dall’incredulità, di fronte a un simile racconto, che risulta confermato e universalmente testimoniato, al tempo dell’imperatore Costanzo. A quell’epoca infatti, uno di tali uomini fu condotto vivo ad Alessandria; così poté offrire di sé uno spettacolo straordinario a tutto il popolo; e dopo la sua morte, per sottrarlo all’azione corrompitrice del calore estivo, fu cosparso di sale e poi trasportato ad Antiochia, perché potesse vederlo l’imperatore[5].

L’incontro dei due asceti
S. Sassetta, Galleria d’Arte Nazionale Washington Hiria 
  9. Ma per tornare al mio tema principale, dirò che Antonio proseguiva nel cammino intrapreso, incontrando nient’altro che orme di fiere, nella vasta solitudine del deserto. Non sapeva che fare, né dove andare. Ormai eran passati due giorni: ne restava uno solo per conservare la sua incrollabile fiducia di non essere giammai abbandonato da Cristo. Vegliando, trascorse la seconda notte in preghiera e, al primo incerto chiarore dell’alba, scorse a poca distanza una lupa, che ansimava per l’arsura della sete e s’avvicinava, strisciando, verso i piedi del monte. Antonio la seguì con la vista, e quando la bestia si fu allontanata, egli si avvicinò alla spelonca e cominciò a spingere dentro lo sguardo; ma la sua curiosità fu delusa, giacché l’oscurità di quel luogo gl’impediva la vista. Ma tuttavia, come dice la Scrittura, “l’amore perfetto caccia la paura”[6], cosicché l’avveduto esploratore, con passi felpati e col fiato sospeso, entrò nella grotta, avanzando pian piano e sostando più volte, con l’orecchio teso, per captare un qualsiasi rumore. Finalmente, tra l’orrore di quella cieca notte, riuscì ad avvistare un lume. Mentre si affrettava, con brama crescente, eccolo inciampare col piede in una pietra, facendo rumore. L’udì il beato Paolo, e subito chiuse e sprangò la porta, fino allora spalancata, del suo rifugio. Allora Antonio, prostratosi davanti ad essa, vi rimase fino all’ora sesta, ed anche più oltre, a supplicarne l’apertura, dicendo: “Tu ben sai chi son io, donde vengo e perché. Riconosco di non meritare affatto di vederti; tuttavia, non me ne andrò se non ti vedrò. Tu che accogli le bestie, perché mai cacci via un uomo? Ti ho cercato e ti ho trovato: ora picchio alla porta perché mi si apra. Se non otterrò questa grazia, aspetterò la morte qui, davanti alla tua porta: certamente vorrai almeno seppellire il mio cadavere”. Così ripeteva, senza mai stancarsi, là rimanendo immobile e fisso[7]e a lui brevemente rispose l’eroe, nel seguente tono[8]: “Non c’è nessuno che prega, in modo da minacciare; nessuno che lanci calunnie, nell’atto di piangere. E poi ti meravigli ch’io non voglia riceverti, dal momento che sei venuto qui per morire?”. Così, scherzando con le parole, Paolo spalancò la sua porta e subito, abbracciandosi l’un l’altro, i due si salutarono chiamandosi per nome, e insieme ringraziarono il Signore.  10. Scambiatisi il bacio di pace, Paolo si sedette e così cominciò a dire ad Antonio: “Eccoti davanti colui che con tanta fatica hai cercato: le sue membra sono già imputridite per la vecchiaia, e un un’ispida canizie lo ricopre. Ecco: tu vedi un uomo, che tra poco sarà polvere. Ma, poiché l’amore sa tollerare ogni cosa, raccontami, ti prego, come si comporta il genere umano. Nelle antiche città, sorgono forse dei nuovi edifici? Chi si trova alla guida del mondo? Esistono ancora degli uomini trascinati dall’errore dell’idolatria?”. Mentre così discorrevano, videro che un corvo[9] s’era posato sopra un ramo dell’albero e che di là, tornando a volare lentamente, venne poi a deporre un intero pane davanti ai due monaci stupefatti. Dopo che il corvo se ne fu andato: “Ecco”, esclamò Paolo, “il Signore ci ha mandato il nostro pranzo: in Lui c’è davvero pietà e misericordia. Sono già sessant’anni che io ricevo regolarmente mezzo pane; ma ora, per la tua venuta, Cristo ha raddoppiato la razione ai suoi soldati”.
11. Pertanto, dopo aver nuovamente ringraziato il Signore, si sedettero entrambi sul margine della limpida sorgente. Allora però nacque tra loro una contesa, per vedere chi dovesse spezzare il pane; la disputa si protrasse fin quasi al tramonto. Paolo si sforzava di convincere Antonio, facendo leva sulle regole dell’ospitalità; Antonio, dal canto suo, rifiutava, puntando sul diritto dell’età. Finalmente, presero la decisione di afferrare ciascuno quel pane dalle due parti opposte e di tirare verso di sé, fino quando gli restasse nelle mani la propria razione. Dopo aver mangiato, bevvero un po’ d’acqua della sorgente, accostandovi sopra la bocca, e poi, offrendo a Dio il sacrificio di lode, vegliarono per tutta la notte. E quando già era spuntato un altro giorno sulla terra, il beato Paolo rivolse ad Antonio le seguenti parole: “Già da tempo, o fratello, io sapevo che tu abitavi da queste parti; e da tempo il Signore mi ti aveva promesso in qualità di compagno. Ma dato che ormai è vicino il tempo del mio riposo e di quello che ho sempre agognato, ossia dissolvermi ed essere con Cristo, non mi resta, una volta compiuto il cammino della vita, che ricevere la corona dei giusti. E tu sei stato inviato dal Signore, per ricoprire di terra questo mio corpiciattolo, o meglio per rendere la terra alla terra”.  12. Udite queste parole, Antonio, piangendo e sospirando, lo supplicava di non abbandonarlo e di prenderlo con sé come compagno del suo viaggio. E lui, per tutta risposta: “Tu non devi cercare il tuo vantaggio, ma quello degli altri. A te giova di certo abbandonare il peso del corpo e seguire l’Agnello: ma anche a tutti gli altri tuoi fratelli giova di essere ancora ammaestrati dal tuo esempio. Perciò ti prego: se non ti pesa di troppo, va pure e portami il mantello che ti ha regalato il vescovo Atanasio, per avvolgere in esso il mio povero corpo”. Questa la preghiera che rivolse il beato Paolo, non già perché gli stesse particolarmente a cuore che il suo corpo fosse deposto nudo o coperto, a marcire nella terra – egli infatti per così lungo tempo s’era vestito con foglie di palma –, ma perché Antonio, allontanandosi da lui, provasse di meno il dolore della sua scomparsa. Antonio, tutto preso da stupore per aver sentito parlare di Atanasio e del suo mantello, come se in Paolo vedesse lo stesso Cristo, e nella sua persona venerasse lo stesso Dio, non osò replicare in nessuna maniera; ma, piangendo in silenzio e baciatigli occhi e mani, prese la via del ritorno verso il monastero, che in seguito venne occupato dai Saraceni. Ma i suoi passi non potevano tener dietro allo slancio del suo cuore. Infatti, sebbene il carico degli anni avesse oramai fiaccato il suo corpo, interamente minato dai digiuni, tuttavia la sua forza d’animo trionfava sulla vecchiaia.

Dormizione di Paolo e sua sepoltura
13. Al termine del cammino, giunse finalmente, affaticato e tutto ansimante, alla propria dimora. Gli si fecero incontro due discepoli, che avevano cominciato a servirlo già vecchio, e gli chiesero: “O padre, dove ti sei fermato così a lungo?”. Ed egli rispose: “Guai a me peccatore, che porto falsamente il nome di monaco. Io vidi Elia, vidi Giovanni nel deserto, ma ora, in verità, ho visto Paolo in Paradiso”. Poi si chiuse nel silenzio, e percotendosi il petto con la mano, tirò fuori il mantello dalla sua celletta. E pregandolo i discepoli di esporre con maggiori dettagli di che cosa si trattava, esclamò: “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”[10].  14. Poi subito uscì, e, senza toccare nemmeno un boccone, riprese il cammino già compiuto, assetato soltanto di lui, bramoso di vedere lui solo, mirando lui solo con gli occhi e con tutta la mente. Temeva infatti, come poi accadde realmente, che durante la sua assenza, Paolo rendesse la sua anima a Cristo Signore. Dopo che ormai era spuntato il secondo giorno e gli restavano ancora da percorrere tre ore di cammino, egli ebbe la visione di Paolo che saliva in cielo, splendente di luce chiarissima, in mezzo alle schiere degli angeli, tra i cori dei Profeti e degli Apostoli. E subito, prostrandosi con la faccia per terra, si spargeva di sabbia la testa, e piangendo e gridando, diceva: “O Paolo, perché mi abbandoni? Perché te ne vai senza neppure un saluto? Così tardi ho potuto conoscerti e così presto ti allontani da me?”.  15. Il beato Antonio riferiva più tardi, d’aver compiuto quel pezzo di strada che ancora gli restava da fare, con passo talmente veloce, come se volasse a guisa d’uccello. E non senza motivo; infatti, entrato nella spelonca, si vide davanti il corpo esanime di Paolo, piegato sulle ginocchia, con la testa eretta e le mani distese verso il cielo. Dapprima, pensando che Paolo fosse ancor vivo, si mise lui pure a pregare. Ma poi, non udendo nessuno di quei sospiri, che di solito accompagnavano la preghiera di Paolo, si gettò, piangendo, a baciarlo; si rese conto allora, che perfino il cadavere del santo, mostrando il dovuto atteggiamento della preghiera, continuava a pregare quel Dio, a cui aspira ogni vita.


16. Avvolto pertanto il cadavere e trasportatolo fuori dalla spelonca, cantando pure gli inni e i salmi, secondo la tradizione cristiana, Antonio si doleva di non avere una zappa con cui scavargli la fossa. Ondeggiando così tra vari pensieri, ed esaminando tra sé e sé numerosi progetti, diceva: “Se io torno al monastero, devo compiere un cammino di quattro giorni; se resto qui, non approdo assolutamente a nulla. Morirò dunque, com’è giusto, qui, vicino al tuo soldato, o Cristo, e cadendo, esalerò l’estremo respiro”. Mentre così ragionava nella mente, ecco due leoni arrivare di corsa dall’interno del deserto, con le giubbe svolazzanti sul collo. Al vederli, Antonio dapprima fu preso da grande paura. Ma poi, volgendo la sua mente a Dio, stette lì ad aspettarli con estremo coraggio, come se guardasse due colombe; e i leoni, correndo direttamente verso il cadavere del santo vegliardo, gli si fermarono accanto, e, dimenando le code, si sdraiarono ai suoi piedi, lanciando possenti ruggiti così da far intendere che essi piangevano nel miglior modo possibile. Poi, non molto lontano di là, cominciarono a scavare la terra con le zampe, e gareggiando tra loro nel tirar fuori la sabbia, fecero una fossa capace di accogliere una sola persona. Subito dopo, come se chiedessero un compenso per il loro servizio, movendo le orecchie ed abbassando la testa, si accostarono ad Antonio, lambendogli le mani ed i piedi. Egli comprese che gli chiedevano la sua benedizione. Senza il più piccolo indugio, dandosi con entusiasmo a celebrare le lodi di Cristo, per il fatto che anche dei muti animali ne afferravano l’essere divino, esclamò: “Tu, o Signore, senza il cui cenno non scende una foglia dall’albero, né cade per terra uno solo dei passeri, concedi loro una ricompensa, come tu la sai dare”[11]. E con un cenno della mano, ordinò loro di andarsene. Dopo che i leoni si furono allontanati, Antonio curvò le sue vecchie spalle sotto il peso delle sante spoglie e, depostele nella fossa, vi gettò sopra della sabbia e vi eresse un tumulo secondo l’usanza. E appena si riaccese la luce del giorno seguente, affinché il pio erede non rimanesse privo di una parte dei beni di colui ch’era morto senza far testamento, prese con sé la tonaca, che Paolo stesso, alla maniera delle ceste, s’era fatta di propria mano, intessendola con foglie di palma. E così, ritornato al Monastero, narrò tutto quanto ai discepoli nei più piccoli dettagli, e poi sempre, nei giorni solenni di Pasqua e di Pentecoste, volle mettersi la tunica di Paolo.

Esortazioni conclusive
            17. Al termine di questa piccola opera, mi piace domandare a coloro che non riescono nemmeno a valutare l’enorme quantità delle proprie sostanze, o che rivestono di marmi le proprie dimore, o che in un sol filo di pietre preziose impiegano il valore di interi possedimenti[12]: a questo vecchio, privo di tutto, che cosa ebbe mai a mancare? Voi bevete in coppe sfolgoranti di gemme, quello provvide al naturale bisogno della sete, attingendo l’acqua col cavo delle mani; voi ricamate in oro i vostri abiti, quello non ebbe neppure l’indumento del più disprezzato dei vostri schiavi. Ma, per contro, a quel poveretto è spalancato il paradiso, mentre la Geenna inghiottirà voialtri, anche se carichi d’oro. Quello, benché nudo, serbò tuttavia la veste di Cristo; voi, rivestiti di seta, perdeste l’abito di Cristo. Paolo giace coperto d’umilissima polvere, ma per risorgere alla gloria; voi siete oppressi dai marmi decorati dei vostri sepolcri, ma in attesa di bruciare con tutte le vostre ricchezze. Vi prego, abbiate pietà di voi stessi: risparmiate almeno le ricchezze che vi son care. Perché avvolgete anche i vostri morti con vesti cariche d’oro? Perché non disarma l’ambizione in mezzo ai lutti e alle lacrime? Forse che i cadaveri dei ricchi non possono imputridire, se non sono rivestiti di seta?
18. Ti prego, o lettore, chiunque tu sia, di ricordarti del peccatore Girolamo, il quale, se il Signore gli offrisse una scelta, preferirebbe certamente una tunica di Paolo, assieme ai suoi meriti, molto più delle porpore dei re, insieme con tutte le loro ansie.
Estratto da: “Opere scelte di san Girolamo” vol. I, UTET 1971, 219-235.
 
Tropario. Tono III
Ispirato dallo Spirito, sei stato il primo ad abitare nel deserto emulando lo zelante Elia; come colui che imitava gli angeli, fosti reso noto al mondo, da sant’Antonio il Grande. Paolo giusto, prega Cristo Dio che ci conceda la sua grande misericordia.

Kontakion. Tono III
Riuniamoci oggi e lodiamo con inni colui che si effonde come un raggio del Sole spirituale: ecco vieni, illumina chi è nelle tenebre dell’ignoranza, conduci tutti gli uomini verso l’alto, venerabile Paolo, ornamento di Tebe e solido fondamento dei padri e degli asceti.
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mercoledì 3 novembre 2010

L'ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO


L'idea benedettina dell'uomo e la sua attualità
Estratto dal libro "La vita quotidiana secondo San Benedetto" di Léo Moulinedizioni Jaca Book

1. Come Benedetto vede gli uomini

Quanto finora ho detto è stato il più delle volte scritto all'imperfetto: questo perché la vita quotidiana dei monaci nel Medioevo mi è più familiare. Non se ne deve però dedurre che la vita che essi conducono oggi è radicalmente diversa né, soprattutto, che essa è solamente un anacronismo o una sopravvivenza. Le poche pagine che seguono vogliono appunto dimostrarlo.
Basta vivere qualche giorno in alcune abbazie benedettine per convincersi che i ritmi e i riti, gli usi e i costumi della vita monastica moderna sono rimasti in generale simili a quelli conosciuti dai predecessori dei monaci di oggi.
Una lettura moderna della regola può convincerci che il grande progetto nato dal genio di San Benedetto, padre dell'Europa (Pio XII, 18 settembre 1947), "messaggero di pace, artigiano di unità, maestro di civilizzazione" (Paolo VI, 24 ottobre 1964) è sempre presente, ed è vigorosamente valido oggi quanto nei secoli scorsi.
E' un fatto: San Benedetto non nutre alcuna illusione a proposito dei suoi monaci, a maggior ragione degli uomini in generale. Egli conosce per esperienza la loro doppiezza, vulnerabilità, fragilità radicale, la loro tendenza alla pigrizia e al lasciar correre, la loro profonda cattiveria. Sono dei vizi "congeniti alla natura umana", dice Molière, e i monaci non ne sono esenti. Non c'è quasi pagina della regola che non sottolinei, in un modo o nell'altro, questi limiti e queste debolezze: "noi, rilassati, pieni di difetti e trascurati" (c. 73,17-19), "tiepidi e parassiti" (c. 18,74), "Se qualche fratello è trovato ribelle" (c. 23), "se un fratello spesso è ripreso per qualche difetto..." (c. 28), ancora: "se un fratello arriva in ritardo all'opera di Dio.." (c. 43), "se un fratello si accompagna senza permesso agli scomunicati.." (c. 26), e così di seguito. Ripeto: non c'è, per così dire, pagina della regola dove non appaia la coscienza che il patriarca ha della debolezza intrinseca dell'uomo e della sua vulnerabilità. Ha appena detto, per esempio, quali devono essere le qualità dei cellerario (c. 31) - "saggio, maturo, di carattere sobrio, timoroso di Dio, eccetera" - , che si affretta a sottolineare i difetti che egli non deve avere: non mangione, non arrogante, non testa calda, non insolente, non indolente, non prodigo (c. 31,4-24), e così via. A prima vista la cosa sembra così ovvia che non si immagina un padrone nell'atto di assumere un contabile pronto a raccomandargli di non attingere alla cassa.
San Benedetto nutre così poche illusioni sugli uomini che egli prova il bisogno di dire ciò che essi non devono fare o essere.
Se ne vuole un altro esempio? Lo prendo dal capitolo 36 dal titolo De infirmis fratribus. Dopo aver raccomandato i malati alla benevolenza e allo zelo di coloro che li curano, ante omnia et super omnia (c. 36,1), Benedetto aggiunge che, a loro volta, i malati non dovranno "contristare, con le loro esigenze superflue (superfluitate), i fratelli che li curano" (c. 36,5-8).
Ancora un altro esempio: si tratta questa volta di coloro che ad Opus Dei... tarde occurrunt (c. 43). Il monaco arrivato in ritardo non occuperà il suo posto in coro; starà in disparte, all'ultimo posto, di modo che sia visto dall'abate e da tutti i fratelli nella speranza che l'umiliazione lo correggerà (pro ipsa verecundia, c. 43,17). Tutto questo rivela una eccellente pedagogia. Ma dove si rivela il genio di San Benedetto è quando egli spiega (c. 43,18-22) il motivo per cui non esclude i ritardatari: perché, egli scrive, "rimanendo fuori dall'oratorio, ci sarebbe probabilmente qualcuno che se ne tornerebbe a letto a dormire o almeno se ne starebbe comodamente seduto fuori, oppure si metterebbe a chiacchierare".
Il minimo che si possa dire è che San Benedetto non si fa affatto illusioni sullo zelo spontaneo dei suoi fratelli nel celebrare l'Opus Dei.
Si vuole un'ultima illustrazione dei modo di vedere coloro che pure aspirano a una vita di perfezione? Si tratta di un'annotazione molto breve di San Benedetto nel capitolo De hospitibus suscipiendis. Ilpatriarca raccomanda di ricevere i poveri e i pellegrini tamquam Christus (c. 53,11), cioè con il massimo di riguardo perché in ipsis magis Christus suscipitur (c. 53,31-33), quanto ai ricchi invece il timore che essi ispirano è sufficiente ad assicurare loro un trattamento onorevole, nam divitum terror ipse sibi exigit honorem.
Per il Patriarca, uomo del concreto, uomo del possibile e quindi uomo di governo, gli uomini non sono né naturalmente buoni, né naturalmente ragionevoli, né naturalmente dotati di fermezza. Grande lezione di saggezza politica: non si edifica una società giusta e duratura come l'ordine benedettino su una concezione ottimistica dell'uomo.
Questa visione realistica non suscita tuttavia in lui né rigido disprezzo, né animosità. San Benedetto è un maestro esigente: egli non ha niente a che vedere con il puritano cupo e rinsecchito, "dallo zelo cattivo e amaro" (c. 73,1).
Nella regola non si trova alcuna traccia dell'impietosa durezza, della lucidità gioiosamente crudele, dell'allegria intellettualmente cattiva che costituiscono il genio di Machiavelli: "Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno... E gli uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere". Avrete certamente conosciuto il tono (Principe, c. XVII). E' per questo che è preferibile essere temuti che amati. San Benedetto invece si sforza di essere amato anziché temuto (c. 64,73).
Benedetto, così duro con se stesso, si rivolge in effetti ai suoi monaci come "un tenero padre" (Prol. 3), come un medico delle anime (c. 28,8), un pastore attento a tutto ciò che riguarda coloro che egli ha il dovere di governare (c. 4), come un uomo che "odia i vizi ma ama gli uomini" (c. 64,28) e che "sempre antepone la misericordia alla giustizia" (c. 64,27).
Egli è indulgente e lo è precisamente perché sa che l'uomo è, per natura, debole e cattivo. "I disegni dei cuore dell'uomo sono cattivi fin dall'infanzia" (Gn 8,21). E' per questo che Benedetto perdona così volentieri (contrariamente a coloro che hanno una visione ottimistica della vita).

2. Necessità delle istituzioni

Senza voler assolutamente ridurre la prodigiosa avventura benedettina alle sue sole dimensioni umane, può essere interessante, e fecondo, domandarsi se e in quale misura taluni aspetti puramente funzionali e istituzionali dell'organizzazione benedettina possano spiegare il suo enorme e duplice successo; quindi, superata questa prima tappa, se e in quale misura, il pensiero dei fondatore, la sua visione dei mondo, la sua percezione dell'uomo, in quel che hanno di più semplicemente e strettamente umano, spieghino il successo e la perennità della sua azione. L'approccio è rischioso, non si può negarlo, trattandosi di un uomo come San Benedetto, la cui caratteristica prima è un'estrema religiosità; ma vale la pena, mi sembra, di tentarlo, se non altro nel senso di un rilettura moderna della Regola.
Perché, accanto a quell'intensa vita spirituale che fa vibrare uomini della statura di Benedetto da Norcia o di Bernardo di Chiaravalle, o, più esattamente, nel seno stesso di questa vita spirituale, a proteggerla, a organizzarla, a favorirla anche, e insieme a nutrirsene, troviamo -per forza dì cose, giacché si tratta di "governare gli uomini" e di "amministrare le cose"- delle strutture e un'organizzazione costituzionali che si collocano, si voglia o no, su di un piano puramente umano.
Facciamo un esempio, che servirà a chiarire quanto abbiamo detto. Parlando dell'elezione dell'Abate, Benedetto non scrive: E' evidente che Dio non permetterà mai che la comunità intera elegga una persona complice della sua sregolatezza.; forte della sua esperienza, scrive invece: "Se, per disgrazia (quod quidem absit) capitasse che la comunità intera, di comune accordo, eleggesse una persona complice della sua sregolatezza".... Su di un piano strettamente umano la cosa è possibile; dunque, Benedetto accetta la possibilità di una comunità depravata al punto di scegliere, coscientemente, un capo indegno.
Di fronte a un simile scandalo, Benedetto non prevede affatto l'intervento di un Dio corrucciato, si rimette invece al vescovo della diocesi, agli abati e ai cristiani dei dintorni, cioè a un intervento puramente umano, per riportare l'ordine.
Val la pena di ricordare un particolare, che rappresenta uno degli apporti fondamentali della civiltà monastica nel Medioevo: molto prima dei Comuni italiani e fiamminghi, e in modo ben altrimenti perfezionato rispetto ai Romani, la Chiesa, e in particolare gli ordini religiosi, hanno messo a punto le condizioni di un regime di diritto infinitamente meno sacralizzato di quanto non sarà l'ideologia democratica dei 1789, nel quale nessun potere assoluto, Assembleare o Superiore, può essere legalmente esercitato, certe forme di obiezioni di coscienza. sono riconosciute e un codice elettorale e deliberativo complesso e minuzioso assicura (in linea di principio!) un funzionamento pacifico e regolare (Il primo codice elettorale è quello di Lorenzo di Somercote: risale al 1254). Ancora, è previsto che l'organizzazione delle elezioni e delle deliberazioni si attenga a un livello del tutto "terreno" (per evitare le frodi, le pressioni, gli intrighi ... ). Concluse le preghiere e la messa che la precedono, la scelta dell'Abate è collocata su di un piano assolutamente secolarizzato.
Come abbiamo visto, Benedetto vede gli uomini, siano pure i suoi fratelli, così come sono, lucidamente, senza la minima illusione. Partendo da questa constatazione, mi sono dedicato a una rilettura della Regola, mettendomi nello stato d'animo di un uomo del nostro tempo, del capo di un'impresa ad esempio, che si domanda che cosa un documento tanto antico può ancora dargli.
Da un tale punto di vista, la rilettura di questo documento di non più di novemila parole, si è rivelata di una ricchezza insospettata e, soprattutto, di una sorprendente attualità. In tutta la Regola, praticamente ad ogni pagina, Benedetto parla degli "agitati", dei "ribelli", dei "cattivi", dei "caparbi", "degli orgogliosi", dei fratelli con scarsi meriti intellettuali o religiosi, che, insieme -comunque!- ai "dolci", ai "pazienti", agli "obbedienti", formano il "gregge turbolento e indocile" (c. 2,19), affidato alla sollecitudine pastorale dell'Abate. E, aggiunge, talvolta invano (ma è l'Abate che dovrà renderne conto a Dio).
Benedetto parla anche del priore, che può essere animato da un "cattivo spirito d'orgoglio", dei decani che "si gonfiano di superbia" (c. 21,12), dei monaci estranei all'abbazia, che rischiano "di turbare il monastero con le loro vane esigenze", dei preti ordinati che devono guardarsi dall'"alterigia" (elationem) e dall'"orgoglio" (superbiam) e così di seguito.
Che i malati non stanchino, scrive, "con le loro esigenze superflue" coloro che li curano. Benedetto conosce gli uomini. Che i poveri e i pellegrini siano bene accolti: "quanto ai ricchi... la paura del loro biasimo induce dì per sé a onorarli". Una constatazione fin troppo vera, senza dubbio, ma che non fa certo onore al Padre ospitaliere, non si può negarlo. Stiamo bene attenti: Benedetto non dice: "Il Frate ospitaliere si comporterà certamente in questo modo", si limita a notare che potrebbe farlo. Senza illusioni.
Lo stesso Abate, come tutti quelli che esercitano il potere, o un frammento di potere, dev'essere ben consapevole di correre il rischio di essere lui pure consumato dalla "fiamma dell'invidia e della gelosia", o animato da un "eccesso di zelo pieno di acrimonia"; deve conoscere la sua, "fragilità", le sue debolezze e i suoi limiti, e sapere che, correggendo le debolezze dei suoi fratelli, in realtà si trova ad affrontare i suoi stessi difetti (ipse efficitur a vitiis emendatus c. 2; 112). Si ricordi soprattutto che non gode di un potere arbitrario (quasi libera ... potestate, c. 63,6).
E' sufficiente, d'altronde, dare una scorsa alle relazioni dei visitatori di Cluny o di Cîteaux per convincersi che questo pessimismo della percezione benedettina è lungi dall'essere eccessivo o ingiustificato: non c'è vizio o delitto, a volte addirittura crimine, che non vi compaia. A ben guardare, ne viene fuori l'immagine di una società monastica piuttosto simile alla nostra, con questa differenza -e non è da poco: la percentuale dei peccatori è, comunque, meno elevata e questi sono, il più delle volte, pentiti.
Ecco, in soldoni, come Benedetto vede i suoi fratelli (e, a fortiori, gli altri uomini): la loro debolezza è radicale. In loro il male, la tentazione del male, ha la meglio sul bene; l'inclinazione naturale a lasciarsi andare è più forte della loro volontà di agire bene.
Di qui, naturalmente, l'assoluta necessità di una guida, una regola, un codice, di leggi o di istituzioni, che sopperiscano alla sostanziale fragilità della natura umana.
Benedetto denuncia violentemente (c. 1) quei giovani "isolati o a piccoli gruppi", "senza un capo", che errano "per tutta la loro vita", "sempre in strada, mai tranquilli", "asserviti solo al proprio capriccio", che hanno come unica "legge il soddisfacimento dei loro desideri", cioè del piacere più immediato e decidono "d'autorità" quello che (secondo loro) è permesso e quello che non lo è, ciò che è bene e ciò che è male. Conosciamo l'antifona.
Tentativi di questo genere sono destinati all'insuccesso, la storia l'ha confermato più di una volta (la tentazione anarchica. è vecchia quanto il mondo e l'esistenza delle "libere comunità di base" e dei drappelli "senza Dio né capo", tenuti insieme dal solo amore umano, è di tutti i tempi).
Ma, dirà qualcuno, e gli eremiti? Gli eremiti non vivono anch'essi "senza capi", "soli o in piccoli gruppi"? Benedetto stesso non ha cominciato la sua vita con lunghi anni di eremitaggio? Che ne pensa lui, che ha messo insieme l'esperienza della solitudine più totale con quella della vita comunitaria? Egli stesso ci risponde, nel primo capitolo della sua Regola: ci sono dapprima, e soprattutto, "i cenobiti, quelli che vivono in comunità in un monastero e militano (militans) sotto una Regola o un Abate", dunque nel quadro delle istituzioni anteriori ed esterne ai monaci.
Seguono gli anacoreti o eremiti, che non sono dei novellini: non ci si improvvisa eremiti, sotto la spinta del "semplice fervore dell'esordio nella vita religiosa". Sono, al contrario, degli uomini "formati da una lunga prova", vissuta nel monastero, nel seno della "milizia fraterna" dei loro fratelli, degli uomini "ben esercitati", trascinati alla battaglia solitaria del deserto. che, "sicuri di loro stessi, possono condurre la lotta" contro i vizi della carne e dello spirito, "senza l'aiuto di nessuno", ma Deo auxiliante, "con l'aiuto di Dio".
Prova terribile, avventura pericolosa, riservata soltanto a pochi, nella quale non è consigliabile arrischiarsi, senza essersi sottoposti, prima di tutto, ad un lungo e duro processo di socializzazione, che permette di interiorizzare le strutture e lo spirito della vita monastica, in modo che l'anacoreta non cessi di appoggiarsi alle istituzioni che la solitudine sembra aver cancellato. Mutatis mutandis, è, vissuta su di un piano religioso, e volontariamente, l'avventura di Robinson Crusoe, il più solitario e il più socializzato degli uomini, che trionfa sulle insidie e sui pericoli della solitudine perché, naufrago miserabile, è stato plasmato al cento per cento dalla società stessa, per poter fare a meno di lei. In un certo senso e provvisoriamente.

3. "Conoscere gli uomini e amarli lo stesso"
(Leone Tolstoj)

Benedetto dunque conosce gli uomini, le loro debolezze e i loro limiti. Non nutre alcuna illusione a loro riguardo. Tuttavia, ed è questo che lo distingue da un Machiavelli, ad esempio, o da un Hobbes, la sua visione disincantata e realistica non lo induce a pensare che i figli di Adamo siano irrimediabilmente perduti e che non ci sia nulla da fare o da sperare. In Benedetto non c'è traccia di disprezzo o acredine, non c'è ombra dello "zelo tetro e amaro" (c. 73,1), che anima tanti puritani o idealisti che vogliono fare la felicità della gente suo malgrado.
Benedetto ama gli uomini per quello che sono, e specialmente i deboli, i malati, i vecchi, i poveri, i giovani, i peccatori, i recidivi (c. 31). Per loro vuole essere un "tenero padre", che "sempre preferisce la misericordia alla giustizia" (c. 64,26), che "desidera farsi amare piuttosto che temere" (c. 64, 36). Machiavelli, e qui sta tutta la differenza, opta per la paura e il terrore (Il Principe, cap. XVII), Benedetto è il pastore di un gregge a cui non propone nulla di rigoroso e gravoso (nihil asperium, nihil grave, Prol. 107), in quella che, dopotutto, ai suoi occhi è soltanto una "piccola regola per nuovi adepti", (hanc minimam inchoationis regulam, c. 73, 23).
Di questa tenerezza, incessantemente e attivamente presente, si potrebbero moltiplicare gli esempi: ogni pagina della Regola ne offre a iosa. Notiamo, ad esempio, con quanta umanità Benedetto tratta i fratelli esclusi, per errori gravi, dalla comunità, gli scomunicati, i recidivi. Un problema sociale che ci è familiare anche oggi. Per lui costoro sono, anzitutto, dei malati (c. 27 e 28) ai quali la Comunità deve stare vicina con tutto il cuore, per evitare che affondino "in un abisso di tristezza" (abundantiori tristitia). Se tutti i rimedi falliscono, la Comunità deve ricorrere a "un mezzo più efficace", la preghiera, "affinché il Signore, che può tutto, renda la salute al fratello malato" (c. 28, 17), che verrà così a resipiscenza. La stupenda parola! Derivata da sapientia, etimologicamente significa "ritorno alla ragione", e solamente in seguito assumerà il significato di "pentirsi". Essere -infine- ragionevole, comprendere, conduce al pentimento (speriamo).
La sollecitudine di Benedetto non si applica solo ai casi estremi, come quelli di cui abbiamo appena parlato, ma si estende agli aspetti più umili del vivere quotidiano. Ne è testimonianza questo passaggio dei capitolo 22: "Levandosi... i fratelli si incoraggino dolcemente (sottolineo l'avverbio, L.M.), in modo da non offrire a quelli (ancora) assonnati il pretesto di reagire brutalmente". E altrove (c. 8): "Ci si leverà all'ora ottava della notte (cioè, tra le due o le tre dei mattino), in base a una valutazione ragionevole in modo che ci si alzi a digestione compiuta" (iam digesti surgant). E più avanti, questo passaggio, nel bel mezzo del capitolo relativo agli "uffici divini della notte", che tratta di un dettaglio assolutamente prosaico (ma Benedetto, padre del monastero, pastore del gregge, medico delle anime, Vicario di Cristo, pensa a tutto): "dopo un breve intervallo, durante il quale i fratelli potranno uscire per soddisfare i bisogni della natura. (ad necessaria naturae c. 8,12"...
Bisogna prendere gli uomini come sono, nella piena coscienza della loro intima debolezza, della debolezza dei deboli., (infirmorum contuentes imbecillitatem, c. 40,6); organizzare, ad esempio, il lavoro con moderazione, tenendo conto di quelli che sono deboli (mensurate (...) propter pusillanimes) "infermi o delicati" (c. 48,57) e, soprattutto, è necessario non pretendere che siano conformi all'immagine astratta, idealizzata, che ci si è fatta dell'uomo.
Gli uomini bisogna accettarli per quello che sono, nella loro infinita diversità, nonostante le ineguaglianze nel sapere, nell'intelligenza, nella ricchezza spirituale, nella saggezza, nei meriti, nello zelo, nella resistenza fisica e morale, che li caratterizzano. Perché soltanto agli occhi di Dio esiste e può esistere uguaglianza: "noi serviamo, allo stesso titolo, nella milizia di un solo Signore" (c. 2,56). Sul piano del terreno e del quotidiano, gli uomini sono profondamente ineguali. Benedetto lo sa e lo dice.
L'Abate dovrà dunque "piegarsi alle disposizioni della maggioranza", "senza parzialità", "secondo il valore dell'intelligenza di ciascuno" (c. 2,92); "non turberà il gregge che gli è affidato" (c. 63,5) con decisioni arbitrarie o nocive all'armonia della Comunità. Non deve logorare le sue pecorelle con troppe pretese, ma guidarle con "discernimento e moderazione" (discernat et temperit, c. 63,42) -due parole-chiave del pensiero benedettino.
Dunque, niente gregari. Nessuna irreggimentazione, nessun livellamento alla base. Meno ancora egualitarismo, questo attentato alla dignità della persona umana, che mortifica i migliori, abbassandoli ingiustamente al livello della folla, e avvilisce gli umili, facendo loro credere, mendacemente, che non esistano differenze tra gli uomini. L'Abate deve rispettare le diversità tra un uomo e l'altro e dare ad ognuno la possibilità di far fruttare il talento (Matteo, 25,14-30) che Dio gli ha dato, e in questo modo di sbocciare.
L'età in sé non è un merito né un demerito: "in nessun momento, e in nessun caso, l'età saprebbe creare un prestigio o un'inferiorità" (c. 63,14): questo significherebbe l'introduzione di un elemento meccanico nel processo di giudizio e di scelta, e un attentato alle ricchezze potenziali della diversità. La frase è sconvolgente, per quell'era della gerontocrazia in cui fu scritta. Benedetto spiega: "spesso è proprio ai più giovani che Dio rivela la soluzione migliore" (c. 3,8).
L'Abate dunque verrà scelto "in base ai meriti della sua vita e alla saggezza della sua dottrina, anche se è l'ultimo (per la data della sua professione, L.M.) nella gerarchia della comunità" (c. 64,7-8). L'età non ha importanza; è (in linea di principio, perché gli uomini restano uomini) un sistema di selezione e di promozione che si basa su di un'amplissima gamma di scelte possibili.
Segue uno splendido quadretto di quel che deve essere il capo di un'impresa benedettina. L'Abate, "Vicario di Cristo", dalla cui volontà tutto dipende e deve dipendere, sarà, proprio per questo, moderato, riservato, indulgente; non sarà agitato o inquieto, eccessivo o ostinato, o geloso o troppo sospettoso (un po' è bene che lo sì: è il destino di tutti coloro che dirigono un'impresa). Che non finga, soprattutto, di ignorare gli errori nascenti; che vi porti rimedio, che li "recida alla radice", appena "cominciano ad avere un peso". Che non esiti dunque a punire, ma "con prudenza e carità", "senza nulla di eccessivo", dosando i suoi interventi a seconda delle circostanze (Miscens tempora temporibus, c. 21,13). (Questo vale.,per gli insegnanti, per gli ufficiali e per i capifamiglia). Perché, di tutte le virtù che insegna Benedetto, quella che mette maggiormente in evidenza è la discretio, "madre di tutte le virtù" (c. 64,48), ovvero il senso della misura, il discernimento, la moderazione, il giusto equilibrio tra quel che si può sperare dagli uomini e i gravami della realtà quotidiana.
In Benedetto non c'è niente di repressivo. Quando punisce, vuol punire l'errore o l'ostinazione in esso assai più che il colpevole. Dal momento che non si fa illusioni sugli uomini è incline a perdonare: ai suoi occhi, la colpa è parte integrante della natura umana, ed è alla luce di una simile visione che egli la giudica. Punire, punire un "malato", va bene, ma non troppo, "per non spezzare la canna (già) incrinata" (c. 64,33), per non infrangere il vaso, a forza di voler "togliere la ruggine" (c. 44,31): non sogniamoci di voler rendere gli uomini perfetti, soprattutto loro malgrado. Insomma, "che l'Abate odi i vizi, ma ami i fratelli" (c. 44,27): la distinzione non è sempre facile da fare. E meno ancora da applicare nella vita di tutti i giorni: come amare questo fratello "vizioso", "colpevole", "malato", forse, ma "cattivo ?
Benedetto ha piena coscienza del fatto che la vera grande arte è quella di governare gli uomini, come verrà detto nel Medioevo: "ARS ARTIUM, GUBERNATIO HOMINUM".
Egli sospira: "E' un compito difficile e faticoso governare gli uomini" (c. 2,84)

4. Una attenzione totale

La visione realistica degli uomini che impregna tutta l'esperienza personale di Benedetto e ispira la sua Regola, non induce affatto il Patriarca d'Occidente ad abbandonarli a se stessi; è convinto che del "gregge turbolento e indocile" che gli è affidato sia possibile fare qualcosa di buono. Questa "piccola Regola per i neofiti" può, quanto meno, permettere di acquisire "onestà di vita e muovere i primi passi nella vita religiosa": per mezzo della preghiera, "breve", "pura e frequente", della mortificazione ("odiare la propria volontà"), con l'obbedienza e con la fede. Per mezzo della vita vissuta insieme ai fratelli, in quella preghiera di pietra che è il monastero, "l'officina (officina), dove, scrive Benedetto, dobbiamo lavorare diligentemente con tutti questi strumenti. (c. 4,98), animati dalla ferma intenzione di restarvi sempre legati. (stabilitas, c. 11,99). "Militando sotto la Regola e l'Abate., incarnazione della Regola cui si deve obbedienza e che è il solo autorizzato ad esigere tale obbedienza (Regulae auctoritas, c. 37,3). Sono questi gli ingredienti fondamentali di tutta la vita religiosa.
Interviene ancora un altro elemento, altrettanto fondamentale, sia nella vita quotidiana dei religiosi, sia, questa volta, nella vita quotidiana del cittadino del nostro tempo: voglio parlare dell'osservanza. L'osservanza, che è la stretta applicazione, in tutti i momenti della vita, in tutte le azioni, di una attenzione tesa e totale. Significa fare, "senza ritardo", senza esitazioni, senza mormorare né replicare, senza tiepidezza o pigrizia, con zelo e applicazione la missione affidata a ciascuno, o semplicemente i piccoli doveri quotidiani. E farlo bene! Vuol dire essere sempre presenti a se stessi, senza sosta: Actus vitae suae omnia hora custodire (c. 2,56), che, in linguaggio moderno, si potrebbe tradurre: "conservare ad ogni istante il controllo delle proprie azioni", dei propri atti, dei propri gesti e del proprio pensiero. La distrazione, il ritardo, la balordaggine, la dimenticanza, il lapsus, la fantasticheria, la negligenza, l'errore (nell'oratorio, c. 45, a tavola, c.38) non sono permessi. L'uomo è sempre considerato responsabile di ciò che fa, di quel che è e di quel che pensa. (E' inutile, credo, sottolineare la modernità di questa esigenza: il self-control, la padronanza di sé, la razionalizzazione dei comportamenti, sono uno dei fondamenti dell'azione e della supremazia europea nelle società del passato (Cf. L. Moulin, L'aventure européenne, pp. 67-69).
Citiamo un solo passaggio della Regola, il capitolo 46, per illustrare quel che abbiamo appena detto: "Quando a un monaco, durante una qualunque attività, nelle cucine, in cantina, nel corso di un servizio, nella panetteria, in giardino, nell'esercizio di un mestiere, o in qualsiasi luogo (notiamo l'enumerazione, il più possibile esaustiva), capita di sbagliare, di rompere o di perdere qualche cosa, o di commettere un altro fallo, dovunque ciò avvenga...": ecco tutto questo costituisce una colpa, un delitto (delictum). D'altronde, Benedetto precisa (c. 33): "Se qualcuno tratta uno degli oggetti del monastero senza garbo o con negligenza,sarà rimproverato. Se non si corregge (sempre quest'idea tipicamente benedettina: è la perseveranza a costituire la colpa per eccellenza), subirà la disciplina regolare, che va dalla reprimenda pubblica (c. 23), alla privazione della "comunità del desco" (c. 24), dalla scomunica alla verga.
In nessuna circostanza, per poco importante che sia, il monaco può sbagliare o cedere, né può giustificarsi dicendo "non l'ho fatto apposta". Certo, ma hai sbagliato. Oppure "Ho creduto di far bene": bisogna far bene, e non "credere" -questo verbo invertebrato- di averlo fatto. É così di seguito.
Praticando giorno dopo giorno, scrupolosamente, queste virtù, è possibile diventare un pochino migliori di quanto non si fosse al punto di partenza; senza illusioni, perché la caduta e la recidivia non sono mai lontane e sono sempre possibili.
Taluni, tuttavia, potranno percorrere un cammino più arduo (omnia dura et aspera) che permetterà loro di "raggiungere le più alte cime della dottrina e della virtù" (c. 73,25), e "per mezzo del quale si arriva a Dio" (c. 58, 18). Ma non a tutti è dato il percorrere questo cammino: paucorum est ista virtus (c. 49,31).
Morale: l'uomo non è, in alcun momento, il prodotto esclusivo del suo ambiente e/o dell'ereditarietà; può, se vuole (e, fatto "a immagine e somiglianza di Dio", è, per definizione, dotato di libertà e di volontà), diventare diverso e migliore di quel che sarebbe, se fosse in balia di se stesso. Egli può costruire la sua vita.

5. La dolcezza dei rapporti umani

E' questo l'ultimo grido della saggezza benedettina, e quanto essa ha ancora di valido per l'uomo d'oggi? Qualche tratto, di un'abbagliante attualità, completa il quadro. In un monastero si vive gli uni sugli altri: è la più dura delle mortificazioni, mi disse un Padre Trappista (insieme alla solitudine, mi sussurra un Certosino). I contatti quotidiani sono molteplici, inevitabili; essi inaspriscono singolarmente quanto può esserci di doloroso, di penoso o di francamente insopportabile nella presenza di questo o di quello (pensiamo alle tensioni che scandiscono la vita di due persone che vivono insieme da molti anni). La Regola e le Leggi Consuetudinarie sono lì apposta per evitare che esplodano clamorosamente gli attriti che esistono, latenti, nel seno della Comunità più profondamente unita nelle cose essenziali; ma la vita quotidiana è fatta di simili momenti di tensione. Nei capitoli 4 e 36 della Regola - in particolare - Benedetto ha raccolto un breve trattato di civiltà sul modo di evitare urti di questo genere che, per secoli e ancora oggi, ha impregnato e impregna l'intera vita benedettina e le dona quella dolcezza, quella tenerezza umana, quella serenità dell'anima, che sono le sue caratteristiche. Citiamo ancora: gli ospiti, i forestieri, saranno ricevuti "tamquam Christus" (c. 53, 2); si cureranno i malati "come se fossero Cristo" (c. 36,2).
"Fare a gara per onorarsi a vicenda": è il rispetto per la Persona dell'Altro in quanto ha di essenziale e di unico (avviso agli automobilisti). "Fare a gara per ubbidire gli uni agli altri": il religioso non ubbidisce soltanto alla Regola, all'Abate e agli "ufficiali", che questi ha scelto; deve ubbidire agli altri, a tutti gli altri.
"Sopportare pazientemente le infermità altrui; sia quelle del corpo che quelle dello spirito". Aggiungiamo: e anche le proprie, per non disturbare gli altri con lamentele superflue e con la descrizione minuziosa dei propri mali.
"Avere per l'Abate un affetto umile e sincero": non basta obbedire, bisogna amare. Il grande studioso Konrad Lorenz, Premio Nobel per la medicina nel 1973, ha scritto: "Il rispetto della gerarchia e l'amore non sonò incompatibili". Il monaco, dunque, deve anche amare il suo Abate. Ecco perché se, dopo esser stato rimproverato, si accorge che il suo superiore "è irritato con lui o in collera, per quanto poco (quamvis modice), gli chiederà perdono fino a quando la sua benedizione gli avrà fatto capire che la collera si è calmata" (sanetur illa commotio). Perché bisogna riconciliarsi, "fare pace" (in pacem redire), prima del calar del sole, "con quelli che sono in discordia con voi" (c. 4,88), (se lo ricordino le coppie, vecchie e giovani). "Venerare gli anziani. Amare i più giovani". Altrove (c. 63, 23): "I più giovani onoreranno gli anziani e gli anziani avranno dell'affetto per i giovani"; (minores suos diligant : notate la tenerezza del suos).
Ed ecco qualcosa che riguarda direttamente l'uomo d'oggi, che è fin troppo incline ad attribuire la responsabilità delle sue colpe alla sorte, all'ereditarietà o all'ambiente, o a tutto insieme In un magma confuso: "Riconoscersi sempre come autori del male che è in noi e farcene carico" (c 4, 49).
Civiltà di tutti gli istanti, cortesia, tenerezza fraterna, carità, educazione, quel "riconoscimento quotidiano della dignità umana", scrive Bernard de Jouvenel, equilibrio di una vita armoniosamente distribuita tra la vita spirituale, il lavoro, la distensione, il riposo: valori questi che, da secoli, sono l'appannaggio della vita monastica se non, sotto molti aspetti, quelli che popolano le nostalgie dell'uomo moderno, che si sforza di ritrovarli, bene o male, nella sua seconda casa o nelle sue gite domenicali: i valori dell'interiorità, i cibi semplici e naturali, il silenzio, la natura, i riti della convivialità e, chissà?, qualche volta, la preghiera.