sabato 28 gennaio 2012

La Preghiera del cuore
nella tradizione della Chiesa

La formula
La preghiera di Gesù si dice in questo modo: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me, peccatoreIn origine, la si diceva senza la parola peccatorequesta è stata aggiunta più tardi alle altre parole della preghiera. Tale parola esprime la coscienza e la confessione del nostro stato di peccato


Istituita da Cristo
Dopo l'ultima cena, il Signore Gesù Cristo diede ai suoi discepoli dei comandamenti e dei precetti sublimi e definitivi; fra questi, la preghiera nel suo Nome. Egli ha presentato questo tipo di preghiera come un dono nuovo e straordinario, d'inestimabile valore. Gli apostoli conoscevano già in parte la potenza del Nome di Gesù: per suo mezzo guarivano le malattie incurabili, sottomettevano i demoni, li dominavano, li legavano e li cacciavano. E' questo Nome potente e meraviglioso che il Signore comanda di utilizzare nelle preghiere, promettendo che agirà con particolare efficacia. "Qualunque cosa chiederete al Padre nel mio Nome", dice ai suoi apostoli, "la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio Nome, io la farò" (Gv 14,13-14). "In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio Nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio Nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16,23-24).
La pratica degli apostoli
Nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere noi vediamo la fiducia senza limiti che gli apostoli avevano nel Nome del Signore Gesù e la loro infinita venerazione nei suoi confronti. E' per suo mezzo che essi compivano i segni più straordinari. Certamente non troviamo nessun esempio che ci dica in che modo essi pregassero facendo uso del Nome del Signore, ma è certo che lo facevano. E come avrebbero potuto agire diversamente, dal momento che tale preghiera era stata loro consegnata e comandata dal Signore stesso, dal momento che questo comando era stato loro dato e confermato a due riprese? Se la Scrittura tace a questo proposito, è unicamente perché questa preghiera era di uso comune: non v'era dunque nessuna necessità di menzionarla espressamente, dato che era ben nota e che la sua pratica era generale.
Un'antica regola
Che la preghiera di Gesù sia stata largamente conosciuta e praticata risulta chiaramente da una disposizione della chiesa che raccomanda agli analfabeti di sostituire tutte le preghiere scritte con la preghiera di Gesù. L'antichità di tale disposizione non lascia spazio a dubbi. In seguito, essa fu completata per tener conto della comparsa all'interno della chiesa di nuove preghiere scritte. Basilio il Grande ha steso quella regola di preghiera per i suoi fedeli; così, certuni gliene attribuiscono la paternità. Senz'altro, però, essa non è stata né creata né istituita da lui: egli si è limitato a mettere per iscritto la tradizione orale, esattamente come ha fatto per la stesura delle preghiere della liturgia. Quelle preghiere, che esistevano a Cesarea già fin dai tempi apostolici, non erano scritte, ma si trasmettevano in forma orale, allo scopo di proteggere quel grande atto liturgico dai sacrilegi dei pagani.
I primi monaci
La regola di preghiera del monaco consiste essenzialmente nell'assiduità alla preghiera di Gesù. E' sotto questa forma che tale regola viene data, in maniera generale, a tutti i monaci. In questa regola si parla della preghiera di Gesù allo stesso modo in cui si parla della preghiera domenicale, del salmo 50 e del simbolo della fede, cioè come di cose universalmente conosciute e accettate. Quando Antonio il Grande, che visse fra il III e il IV secolo, esorta i discepoli ad esercitarsi con il più grande zelo nella preghiera di Gesù, ne parla come di qualcosa che non ha bisogno del minimo chiarimento. Le spiegazioni relative a questa preghiera apparvero più tardi, a mano a mano che se ne perdeva la conoscenza viva. Così, un insegnamento dettagliato sulla preghiera di Gesù fu dato dai Padri del XIV e XV secolo, allorché la sua pratica prese a scomparire anche fra i monaci.
Testimonianze indirette
Nei documenti dei primi secoli del cristianesimo pervenuti fino a noi, la preghiera nel Nome di Gesù non è trattata a parte, ma solo in connessione con altri temi.
Nella Vita di Ignazio Teoforo, vescovo di Antiochia, che ricevette la corona del martirio a Roma sotto l'imperatore Traiano, leggiamo quanto segue: “Mentre lo si conduceva per essere consegnato alle bestie feroci, egli aveva incessantemente il Nome di Gesù Cristo sulle labbra; allora i pagani gli chiesero per quale motivo pronunciasse continuamente quel Nome. Il santo rispose che aveva il Nome di Gesù Cristo impresso nel cuore e che non faceva altro che confessare con la bocca colui che sempre portava nel cuore." Il santo martire Ignazio fu davvero, sia nel nome che nella vita, un 'Teoforo' (nome che in greco significa 'Portatore di Dio'), perché portava sempre nel cuore il Cristo-Dio, impresso dalla meditazione continua del suo spirito. Ignazio fu discepolo del santo apostolo ed evangelista Giovanni ed ebbe nella sua infanzia il privilegio di vedere il Signore Gesù Cristo.
La chiesa primitiva
Non v'è dubbio che l'evangelista Giovanni insegnò la preghiera di Gesù a Ignazio e che questi, in quel periodo fiorente del cristianesimo, la praticava al pari di tutti gli altri cristiani. In quel tempo tutti i cristiani imparavano a praticare la preghiera di Gesù: anzitutto per la grande importanza di questa preghiera, quindi per la rarità e il costo elevato dei libri sacri ricopiati a mano e per il numero ridotto di quanti sapevano leggere e scrivere (gran parte degli apostoli erano analfabeti), infine perché questa preghiera è di facile uso.
Declino progressivo
Uno scrittore del V secolo, Esichio di Gerusalemme, si lamenta già che la pratica di questa preghiera è andata fortemente in declino fra i monaci. Col tempo, tale declino si accentuerà ulteriormente; così, i santi Padri con i loro scritti si sforzarono di incoraggiare questa pratica. L'ultimo in ordine di tempo a scrivere su questa preghiera fu il beato staretzSerafim di Sarov. Lo staretz non redasse lui stesso le Istruzioniche apparvero sotto il suo nome, ma esse furono messe per iscritto, a partire dal suo insegnamento orale, da uno dei monaci che stavano sotto la sua direzione; esse portano chiaramente il segno di un'ispirazione divina.  Ai nostri giorni, la pratica della preghiera di Gesù è quasi abbandonata da coloro che fanno vita monastica.
Il potere del Nome
La forza spirituale della preghiera di Gesù risiede nel Nome del Dio-Uomo, il nostro Signore Gesù Cristo. Benché siano molti i passi della sacra Scrittura che proclamano la grandezza del Nome divino, tuttavia il suo significato fu spiegato con grande chiarezza dall'apostolo Pietro dinanzi al sinedrio che lo interrogava per sapere "con quale potere o in nome di chi" egli avesse procurato la guarigione a un uomo storpio fin dalla nascita. "Allora Pietro, pieno di Spirito santo, disse loro: 'Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a voi tutti e a tutto il popolo d'Israele: nel Nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati"' (At 4,7-12) Una tale testimonianza viene dallo Spirito santo: le labbra, la lingua, la voce dell'apostolo non erano che strumenti dello Spirito.
Un altro strumento dello Spirito santo, l'apostolo dei gentili, fa una dichiarazione simile. Egli dice: "Infatti, chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvato" (Rm 10,13). "Gesù Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra" (Fil 2,8-10).
Hanno detto di essa i Monaci che l'hanno praticata

È preghiera pura la "preghiera dell'ardore", fitta di orazioni "veloci e veementi, pure e fervide come carboni di fuoco",  un grido potente (Eb 5,7) che sale dal profondo del cuore, congiunto all'umiltà che [procede] dalla potenza della gioia", da cui "l'uomo è umiliato nei suoi pensieri fino agli abissi" (Isacco di Ninive: Sui santi fremiti)
"Un'orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata,  ineffabile". Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi di accoglierla. (Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci).


venerdì 27 gennaio 2012

I PADRI DELLA CHIESA

I. NOZIONE.

Il nome di Padri è di origine orientale. Gli antichi popoli d'Oriente, infatti, onoravano con questo appellativo i maestri, considerati come autori della vita intellettuale, originata dal loro insegnamento. In tale senso i discepoli delle scuole profetiche furono denominati filii prophetarum, e il loro maestro fu detto Pater (I Reg. 10, 12; 1 Sam. 40, 35).
Nella Chiesa primitiva, con questo nome vennero designati i vescovi, i quali, appunto perché ministri dei Sacramenti e depositari del patrimonio dottrinale della Chiesa, erano ritenuti generatori di quella vìta in Cristo di cui parla S. Paolo nel testo citato (cf. Martyrium Polycarpi, 12, 2; Acta Cypriani, 3, 3). A partire dal sec. IV, quando i vescovi primitivi incominciarono a essere considerati testimoni autorevoli della tradizione e giudici nelle controversie dogmatiche, si valutò soprattutto l'autorità dottrinale, e il nome di Padri si restrinse agli assertori della fede, che avevano lasciato testimonianza scritta. Ben presto però questo titolo si estese anche ai non vescovi per opera di S. Agostino, il quale citò a testimone della dottrina cattolica circa il peccato originale il contemporaneo S. Girolamo, semplice prete (Contra Iul., 1, 34; Il, 36). Però non tutti gli scrittori ecclesiastici erano atti a testimoniare la fede della Chiesa, essendo taluni caduti in gravi errori. Perciò gli scrittori ecclesiastici antichi vennero distinti in due categorie; quelli riconosciuti dalla Chiesa come testimoni della fede, e quelli che non lo erano. Il primo esempio di tale distinzione si trova nella decretale De libris recipiendis et non recipiendis del sec. VI, che va sotto il nome di papa Gelasio e che, per conseguenza, costituisce il più antico catalogo di scrittori cristiani riconosciuti come Padri della Chiesa.

Tenendo conto delle varie determinazioni a cui andò soggetto questo appellativo, quattro elementi entrano a formarne il concetto: 
  1. a) dottrina ortodossa : quali custodi infatti della tradizione ricevuta dai maggiori, debbono trasmetterla inalterata alle generazioni

lunedì 2 gennaio 2012

Il demonio e la monaca: la Beata Eustochio


Tanti non ne conoscono l'esistenza, ma
 la Diocesi di Padova, anche grazie al prezioso lavoro di Mons. Brazzale, prosegue nel divulgare le virtù eroiche della monaca patavina, beatificata da Papa Clemente XIII.
Una Beata, Eustochio che merita sicuramente di essere scoperta, in un epoca in cui molti credenti (e molti sacerdoti) non credono all'esistenza del demonio e delle sue possessioni. Di seguito riportiamo qualche cenno sulla vita della Beata Eustochio (testo tratto da santiebeati.it):

La sua nascita non fu proprio legittima, Lucrezia Bellini nacque a Padova nel 1444, da una monaca del monastero benedettino di S. Prosdocimo e da Bartolomeo Bellini; a quattro anni il demonio s’impadronì del suo corpo, senza toglierle l’uso della ragione, tormentandola praticamente per tutta la vita. A sette anni fu affidata alle monache di San Prosdocimo che gestivano nel monastero una forma di educandato; la condotta della comunità non era proprio esemplare, ma Lucrezia agli svaghi mondani, preferiva il ritiro, il lavoro e la preghiera, era molto devota alla Madonna, a s. Girolamo e a s. Luca. Nel 1460 il vescovo Jacopo Zeno, alla morte della badessa, tentò d’imporre al monastero una maggiore disciplina, ma sia le monache, sia le educande, se ne ritornarono alle proprie case, rimase solo Lucrezia Bellini.

Giunsero allora in sostituzione nel monastero, le Benedettine provenienti dal convento di S. Maria della Misericordia, sotto la guida della badessa Giustina da Lazzara. Lucrezia ormai diciottenne, chiese di entrare nel loro Ordine e il 15 gennaio 1461, ebbe il nero abito benedettino, prendendo il nome di Eustochio; il demonio che da qualche tempo la lasciava in pace, si riaffacciò nel suo corpo, costringendola a fare atti contrari alla Regola, facendola addirittura esplodere in atti così chiassosi e violenti, che le consorelle ne furono terrorizzate e dovettero legarla per molti giorni ad una colonna.
Ma la quiete durò poco, dopo che Eustochio fu liberata, la badessa si ammalò di una strana malattia, fu incolpata lei, quasi considerandola un’ipocrita strega; fu chiusa in una prigione per tre mesi a pane ed acqua.
Ma tutte queste prove non avvilirono la novizia e a chi gli diceva di ritornare nel mondo o cambiare monastero, rispose che tutte quelle tribolazioni erano bene accette e che intendeva espiare la colpa da cui era nata, proprio là dov’era stata commessa; nella sua solitudine si confortava con la recita di un rosario o corona di salmi e preghiere, da lei stessa composte.
Una volta liberata, tornò ad essere tormentata dal demonio, con flagellazioni sanguinose, incontrollabili vomiti e altri strani patimenti che lei sopportava con inossidabile pazienza, ciò convinse le consorelle delle sue virtù e finalmente il 25 marzo 1465 fu ammessa alla professione solenne e come era usanza dell’epoca, due anni dopo gli fu imposto il velo nero delle benedettine.

La sua vita non fu lunga, era stata di grande bellezza ma le possessioni diaboliche, le malattie e le penitenze, l’avevano ormai ridotta ad uno scheletro vivente; gli ultimi anni di vita li trascorse quasi sempre a letto ammalata, assorta nella preghiera e nella meditazione della Passione di Gesù.

Morì il 13 febbraio 1469 a soli 25 anni, la sua fine fu così serena che il suo volto poté riacquistare l’antica bellezza; il demonio poche ore prima l’aveva lasciata finalmente in pace.
Eustochio è l’unico esempio che si conosca di una fedele arrivata alla santità, anche se per tutta la vita fu posseduta dal demonio.
Quattro anni dopo la sua morte, il corpo fu riesumato dal primitivo sepolcro, il quale cominciò a riempirsi d’acqua purissima e miracolosa, che cessò di sorgere solo quando fu soppresso il monastero.

Nel 1475 il corpo fu portato nella chiesa e dal 1720 fu collocato, visibile in un’arca di cristallo. Il monastero di S. Prosdocimo fu soppresso nel 1806 e il corpo della beata benedettina fu traslato nella chiesa di San Pietro sempre in Padova; sopra il marmoreo altare che contiene il suo corpo, sovrasta la pala dipinta del Guglielmi che rappresenta la beata, mentre calpesta il demonio.
Papa Clemente XIII, già vescovo di Padova, confermò il suo culto nel 1760, prima alla città patavina e poi esteso nel 1767 a tutti gli Stati della Repubblica Veneta.
La sua festa religiosa, ancora oggi officiata in tutta la diocesi di Padova, è al 13 febbraio.