Alla comprensione spirituale di questo capitolo della santa Regola ci sia d’aiuto anche l’intercessione di santa Gertrude. Tutta la vita contemplativa di questa santa monaca benedettina scaturisce dalla sua passione per il sacrificium laudis. Nella sua viva partecipazione alla sacra liturgia ella sperimentava la grazia di intuire i misteri del Signore, e poi di compenetrarli, di viverli nella sua situazione esistenziale, di vederli in atto nella situazione della sua comunità monastica e di tutta la Chiesa.
Santa Gertrude è una mistica formata sulla liturgia, quindi sulla Sacra Scrittura, di cui la liturgia è costituita. I suoi slanci non erano superficiali entusiasmi o strane fantasticherie, ma prendevano sempre spunto dalla parola di Dio ascoltata, cantata, pregata in coro.
Ella sentiva molto intensamente la realtà della comunione tra la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste; sapeva di trovarsi in coro non soltanto con le sue consorelle, ma anche con tutti gli angeli e i santi del Paradiso. Nel suo intimo contemplava la corte celeste, godeva di vedersi già nella schiera delle vergini che seguono l’Agnello dovunque vada.
Come sappiamo, anche santa Gertrude fece però un lungo cammino prima di arrivare a gustare le cose di Dio, ad assaporare le sue parole e a tradurle in mistiche elevazioni così come sono giunte a noi. Queste sue elevazioni sono proprio un’eco e quasi un compendio della liturgia quotidiana.
Consideriamo dunque oggi i passi della santa Regola che riguardano l’attenzione nell’eseguire la preghiera corale e qualsiasi altra cosa, dovunque ci si trovi. Come celebrare la divina liturgia in coro, e come continuare a celebrarla nel lavoro, nello studio, nel riposo, nei vari momenti della giornata?
Non riteniamo pedanteria l’insistenza di san Benedetto sul buon comportamento, perché se si comincia a “lasciar andare” un po’ in qualche cosa, si diventa trasandati in tutto. Accogliamo invece con animo dilatato l’esortazione della Regola alla vigilanza in tutto e all’umiltà nel manifestare e riparare subito gli sbagli, poiché sappiamo a Chi stiamo prestando servizio, quando siamo in coro o dovunque. Quel che importa non è l’azione in sé, ma la sua motivazione e il suo fine. Rende importante l’azione Colui per il quale essa è compiuta.
Dunque non si può prendere nulla alla leggera, né in coro, né in altri ambienti e momenti della vita monastica, perché stiamo sempre al servizio di colui che è il Santo e alla cui presenza si deve essere pervasi di santo timore e spirito di profonda adorazione. Non ci venga a noia quindi la disciplina del nostro servizio divino, ma sappiamo invece abbracciarla per amore, come un mezzo per esprimere meglio la nostra devozione a colui che ci ha chiamato a servirlo, che ci ha concesso l’onore di stare alla sua presenza giorno e notte.
“Servite a Cristo Signore” dice l’Apostolo (Col 3,24). Fare tutto con grande serietà, con diligenza, in spirito di filiale libertà. La serietà e la delicatezza in tutto sono dunque un’esigenza interiore di chi ama, non un’osservanza di leggi esteriori. Se questo non è chiaro, è facile diventare osservanti di rigore inflessibile o intolleranti di una disciplina esteriore, che sembra opporsi alla nostra naturale spontaneità.
Il buon zelo raccomandato dalla Regola ha un altro contenuto:
“Se ad un fratello capita di sbagliare recitando un salmo, un responsorio, un’antifona o una lezione, ed egli non si umilia e non ripara subito lì sul posto, davanti a tutti, gli sia imposta una punizione più severa, proprio perché non ha voluto spontaneamente riparare con umiltà la mancanza che aveva commesso per negligenza”. [RB 45,1-2]
È evidente: non si dice che questi tipi di sbagli sono gravi peccati; non si grida subito allo scandalo e non si fa un dramma.
Se uno sbaglia per negligenza o insufficiente attenzione e rende così meno bella la lode di Dio in coro, portando anche disturbo alla preghiera di tutti, subito egli stesso, spontaneamente – perché sente il bisogno di farlo – si inginocchia per riconoscere la sua mancanza e chiederne perdono. Nessuno ve lo butta, nessuno ve lo costringe; anzi, sono tutti pronti a sollevarlo, appena egli si umilia. Del resto, che grande fatica, che dura penitenza è inginocchiarsi e chinare il capo un momento, per poi inserirsi di nuovo nel canto?
Ma se uno non lo fa spontaneamente e continua a comportarsi con disattenzione e trascuratezza, non dando importanza agli sbagli che commette, e alle ammonizioni che riceve, allora è necessario intervenire per sensibilizzare la sua coscienza e aiutarlo ad accettare la disciplina. L’imposizione di una penitenza viene dunque come medicina correttiva quando nel fratello non c’è l’umile, spontanea disposizione a riparare.
La riparazione consiste in un gesto di umiltà semplicissimo, che è come dire: Scusate, sono io che ho sbagliato, sono io che non sono stato attento; me ne dispiace e mi propongo di essere più vigilante.
La punizione prevista per chi non si umilia spontaneamente non è da vedersi in termini di rigore e di intransigenza per far riparare ai danni causati, ma in termini di sollecitudine, di amore per un membro che comincia a manifestare sintomi di malattia spirituale con dannosa ripercussione su tutto il corpo della comunità.
Tutti siamo fragili e fallibili; quando la vigilanza non basta a farci evitare gli sbagli, la cosa migliore è riconoscere con umiltà e riparare con senso di responsabilità. È quanto san Benedetto continua a suggerire nel capitolo seguente.
[Anna Maria Cànopi O.S.B., Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria della Regola di san Benedetto in chiave di mansuetudine, 4a ed., Edizioni La Scala, Noci (Bari) 2007 pp. 329-332]
Santa Gertrude è una mistica formata sulla liturgia, quindi sulla Sacra Scrittura, di cui la liturgia è costituita. I suoi slanci non erano superficiali entusiasmi o strane fantasticherie, ma prendevano sempre spunto dalla parola di Dio ascoltata, cantata, pregata in coro.
Ella sentiva molto intensamente la realtà della comunione tra la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste; sapeva di trovarsi in coro non soltanto con le sue consorelle, ma anche con tutti gli angeli e i santi del Paradiso. Nel suo intimo contemplava la corte celeste, godeva di vedersi già nella schiera delle vergini che seguono l’Agnello dovunque vada.
Come sappiamo, anche santa Gertrude fece però un lungo cammino prima di arrivare a gustare le cose di Dio, ad assaporare le sue parole e a tradurle in mistiche elevazioni così come sono giunte a noi. Queste sue elevazioni sono proprio un’eco e quasi un compendio della liturgia quotidiana.
Consideriamo dunque oggi i passi della santa Regola che riguardano l’attenzione nell’eseguire la preghiera corale e qualsiasi altra cosa, dovunque ci si trovi. Come celebrare la divina liturgia in coro, e come continuare a celebrarla nel lavoro, nello studio, nel riposo, nei vari momenti della giornata?
Non riteniamo pedanteria l’insistenza di san Benedetto sul buon comportamento, perché se si comincia a “lasciar andare” un po’ in qualche cosa, si diventa trasandati in tutto. Accogliamo invece con animo dilatato l’esortazione della Regola alla vigilanza in tutto e all’umiltà nel manifestare e riparare subito gli sbagli, poiché sappiamo a Chi stiamo prestando servizio, quando siamo in coro o dovunque. Quel che importa non è l’azione in sé, ma la sua motivazione e il suo fine. Rende importante l’azione Colui per il quale essa è compiuta.
Dunque non si può prendere nulla alla leggera, né in coro, né in altri ambienti e momenti della vita monastica, perché stiamo sempre al servizio di colui che è il Santo e alla cui presenza si deve essere pervasi di santo timore e spirito di profonda adorazione. Non ci venga a noia quindi la disciplina del nostro servizio divino, ma sappiamo invece abbracciarla per amore, come un mezzo per esprimere meglio la nostra devozione a colui che ci ha chiamato a servirlo, che ci ha concesso l’onore di stare alla sua presenza giorno e notte.
“Servite a Cristo Signore” dice l’Apostolo (Col 3,24). Fare tutto con grande serietà, con diligenza, in spirito di filiale libertà. La serietà e la delicatezza in tutto sono dunque un’esigenza interiore di chi ama, non un’osservanza di leggi esteriori. Se questo non è chiaro, è facile diventare osservanti di rigore inflessibile o intolleranti di una disciplina esteriore, che sembra opporsi alla nostra naturale spontaneità.
Il buon zelo raccomandato dalla Regola ha un altro contenuto:
“Se ad un fratello capita di sbagliare recitando un salmo, un responsorio, un’antifona o una lezione, ed egli non si umilia e non ripara subito lì sul posto, davanti a tutti, gli sia imposta una punizione più severa, proprio perché non ha voluto spontaneamente riparare con umiltà la mancanza che aveva commesso per negligenza”. [RB 45,1-2]
È evidente: non si dice che questi tipi di sbagli sono gravi peccati; non si grida subito allo scandalo e non si fa un dramma.
Se uno sbaglia per negligenza o insufficiente attenzione e rende così meno bella la lode di Dio in coro, portando anche disturbo alla preghiera di tutti, subito egli stesso, spontaneamente – perché sente il bisogno di farlo – si inginocchia per riconoscere la sua mancanza e chiederne perdono. Nessuno ve lo butta, nessuno ve lo costringe; anzi, sono tutti pronti a sollevarlo, appena egli si umilia. Del resto, che grande fatica, che dura penitenza è inginocchiarsi e chinare il capo un momento, per poi inserirsi di nuovo nel canto?
Ma se uno non lo fa spontaneamente e continua a comportarsi con disattenzione e trascuratezza, non dando importanza agli sbagli che commette, e alle ammonizioni che riceve, allora è necessario intervenire per sensibilizzare la sua coscienza e aiutarlo ad accettare la disciplina. L’imposizione di una penitenza viene dunque come medicina correttiva quando nel fratello non c’è l’umile, spontanea disposizione a riparare.
La riparazione consiste in un gesto di umiltà semplicissimo, che è come dire: Scusate, sono io che ho sbagliato, sono io che non sono stato attento; me ne dispiace e mi propongo di essere più vigilante.
La punizione prevista per chi non si umilia spontaneamente non è da vedersi in termini di rigore e di intransigenza per far riparare ai danni causati, ma in termini di sollecitudine, di amore per un membro che comincia a manifestare sintomi di malattia spirituale con dannosa ripercussione su tutto il corpo della comunità.
Tutti siamo fragili e fallibili; quando la vigilanza non basta a farci evitare gli sbagli, la cosa migliore è riconoscere con umiltà e riparare con senso di responsabilità. È quanto san Benedetto continua a suggerire nel capitolo seguente.
[Anna Maria Cànopi O.S.B., Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria della Regola di san Benedetto in chiave di mansuetudine, 4a ed., Edizioni La Scala, Noci (Bari) 2007 pp. 329-332]
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