domenica 17 ottobre 2010

Nostro Santo Padre Pacomio

E' considerato, con S. Antonio il Grande, suo contemporaneo, il padre del cenobitismo egiziano. 
Fu il primo che ne fissò per scritto la regola. Pacomio nacque verso il 292 nella Tebaide superiore, nella diocesi di Latopoli dei Greci (Esneh), da genitori pagani. Fin dall'infanzia dimostrò di avere ricevuto da natura un temperamento dolce. I genitori lo educarono al culto degli idoli, ma egli provò sempre una grande avversione per le cerimonie profane.
 Verso i vent'anni Pacomio fu costretto ad arruolarsi nell'esercito dell'imperatore Massimino Daia, che aveva bisogno di soldati per continuare la guerra contro Licinio e Costantino i quali, con l'editto di Milano (313), avevano ridato libertà alla Chiesa. Il giovane, con parecchie altre recluto, fu imbarcato di prepotenza sopra un vascello e trasportato a Diospoli, capitale della Tebaide. I cristiani che vi si trovavano, verso sera portarono ai soldati stanchi e affamati cibi e denari con la stessa sollecitudine con cui avrebbero soccorso i loro cari. Pacomio rimase profondamente impressionato nel sapere che essi trattavano così i prigionieri "per il Dio del cielo". Durante la notte e in seguito così egli pregò il loro Dio: "Dio creatore del cielo e della terra, getta su di me uno sguardo di pietà; liberami dalle mie miserie; insegnami il modo di rendermi gradito ai tuoi occhi; tutti i miei desideri e tutti i miei sforzi saranno di servirti e di compiere la tua santa volontà". Il giorno dopo fu costretto a rimettersi in viaggio. Il ricordo della carità dei cristiani e della risoluzione che aveva preso di essere utile in qualche modo al genere umano lo sostenne nella lotta contro una tentazione della carne che lo assalì mentre scendeva il Nilo. 
 Alla scomparsa di Massimino, in guerra contro Licinio nel Tauro (313), Pacomio, invece di ritornare alla casa dei genitori, stabilì la propria residenza presso la comunità cristiana di Senesit (l'attuale Kasr-es-Sayad). Prese alloggio in un piccolo tempio pagano abbandonato, si fece iscrivere tra i catecumeni e studiò le verità della fede con grande impegno. La notte dopo il battesimo, fece un sogno; vide la rugiada del cielo discendere sul suo capo, quindi scorrere sulla sua mano destra dove, prima di spandersi su tutta la superficie della terra, si condensava in miele. Era un presagio della sua futura missione che Iddio gli avrebbe manifestato a poco a poco. Cominciò subito a vivere da asceta, a pregare di più e ad esercitare la carità verso il prossimo, specialmente durante un'epidemia, ma non tardò ad accorgersi che gli era impossibile condurre nel villaggio la vita solitaria che desiderava- Decise perciò di farsi anacoreta mettendosi sotto la direzione di S. Paiamone, famoso monaco dei dintorni. Per sette anni ne condivise l'austerissimo genere di vita digiunando nell'estate quotidianamente e, a giorni alternati, nell'inverno; mangiando soltanto pane, sale e legumi, senza olio e senza vino; lavorando buona parte della giornata per il proprio sostentamento e il soccorso ai poveri; passando buona parte della notte in orazione. Durante le veglie, quando Paiamone vedeva il suo discepolo cascare dal sonno, lo invitava ad uscire con lui dalla cella per trasportare della sabbia da un posto all'altro e così poter continuare le loro orazioni senza correre il rischio di addormentarsi. 
 La vita anacoretica offriva possibilità di vita penitente e devota, ma rappresentava pure delle deficienze non essendo soggetta ad una vera regola e alla stretta ubbidienza ad un superiore. Nell'intento d'introdurre tra gli asceti la vita comune, sotto la guida di un unico superiore, con una regola uguale per tutti, Pacomio si separò da Paiamone e si stabilì a Tabennisi, villaggio abbandonato sulla riva destra del Nilo, nella diocesi di Tentiri. Un giorno, mentre pregava nella solitudine, gli giunse dal cielo una voce che gli disse: "Pacomio, Pacomio, lotta, installati qui e costruisci una dimora perché una folla di uomini verrà a te. Seguendoti essi si faranno monaci con profitto delle loro anime". I primi venuti non si sottomisero alla vita comune nel monastero che aveva costruito per loro. Altri Iddio gliene mandò che si dichiararono disposti ad accettare la regola che aveva composto, a vivere assieme, ad adattarsi agli uffici e ai lavori che il superiore avrebbe loro affidato. In poco tempo il monastero di Tabennisi fu riempito da un centinaio di monaci così che Pacomio sentì il bisogno di fare costruire per essi una chiesa.
 Quando il monastero divenne troppo piccolo per accogliere quanti chiedevano di vivere sotto la sua guida, ne fondò un altro poco distante a Pebu, presso Tebe, che divenne sede centrale. 
Intere colonie di anacoreti chiesero allora di fare parte della nuova istituzione. Tra il 320 ed il 346 essa contava già nove monasteri di uomini e due di donne, uno dei quali alle dipendenze della sorella del santo che lo aveva seguito nella solitudine insieme con il fratello maggiore, che poco dopo morì. 
 Pacomio visse quindici anni senza coricarsi, prendendo soltanto un po' di riposo seduto sopra una pietra. A partire dal giorno della sua conversione, non fece mai un pasto completo. Ogni monaco indossava una tunica di lana bianca senza maniche, stretta ai fianchi da una cinghia, portava sulle spalle una pelle di capra conciata, chiamata melote, che gli scendeva fino alle ginocchia e sopra dì essa si metteva una corta cocolla dotata di un cappuccio recante il segno del monastero e della casa alla quale ciascuno apparteneva. Infatti i monasteri, circondati da muretti, comprendevano fino a cinquanta case, con una trentina di celle ciascuna per i religiosi, la chiesa, il refettorio in cui tutti mangiavano in silenzio con il cappuccio in testa in modo da non vedere il vicino, la cucina, la dispensa, il guardaroba, l'infermeria, la biblioteca, le officine e il luogo di riunione per l'intera comunità. Ogni monastero aveva il suo superiore, nominato direttamente dal generale, assistito da un secondo. Anche le singole case del monastero avevano il proprio proposito con il secondo. I monaci erano assegnati all'una o all'altra casa conforme al mestiere che esercitavano, e avevano il proprio grado conforme all'anzianità di professione. 
 Il primo e l'ultimo giorno della settimana ogni monaco faceva la comunione. Pacomio non ammetteva i monaci agli ordini sacri. Ogni sabato essi si recavano ad ascoltare la Messa nella chiesa del villaggio e la domenica i preti del villaggio andavano a celebrare il divino sacrificio nella chiesa del monastero. Quando il santo cominciò ad accogliere tra i suoi monaci anche dei sacerdoti, è probabile che la Messa venisse celebrata tutte le volte nella chiesa della comunità. Per le pratiche di pietà c'era l'assemblea generale verso mezzanotte, presieduta generalmente dal superiore, in cui i monaci salmodiavano, leggevano la Sacra Scrittura e facevano alcune preghiere. Verso l'aurora e poi prima del pranzo, della cena e del riposo notturno, nelle singole case i monaci recitavano sei preghiere e alcun salmi. 
 La formazione ascetica dei monaci era curata dal superiore del convento il quale, tre volte la settimana, teneva loro convenienti istruzioni spirituali, e dai prepositi delle case i quali, due volte la settimana, facevano altrettanto con i loro sudditi. Ad esse si aggiungevano i frequenti colloqui dei sudditi con i superiori, le conferenze spirituali, le esortazioni occasionali e lo studio a tutti prescritto della Bibbia. Per questo Pacomio esigeva che i monaci imparassero a leggere. La regola che egli un po' alla volta diede ai suoi discepoli, e che S. Girolamo tradusse dal latino nel 404, reca l'impronta della moderazione e della praticità. Benché fosse diretta a una comunità, lasciava uno spazio sufficiente all'iniziativa individuale, soprattutto in materia di ascetismo e di preghiera, non avendo la pretesa di regolamentare minuziosamente tutti gli atti che i monaci dovevano compiere. 
 A tutti i membri era imposto il digiuno il mercoledì e il venerdì, mentre negli altri giorni gli addetti alla cucina preparavano per la comunità due pasti frugali a base di pane, legumi, frutta, formaggio, ma sufficienti e tali da permettere ai monaci di mortificarsi volontariamente in qualche cosa. 
 Ad alcuni Pacomio permetteva speciali mortificazioni e digiuni, ma a condizione che non impedissero ad essi di attendere al proprio ufficio non volendo che ne soffrisse la regolare osservanza. Tutti i monaci, non escluso il superiore, dovevano attendere al lavoro manuale, che in principio veniva limitato alla tessitura di stuoie, corde e canestri con i giunchi del Nilo e le foglie di palma. In seguito, quando i monaci divennero diverse migliaia, per procurarsi le risorse necessario al sostentamento esercitarono pure le professioni indispensabili alla vita, la cultura dei campi fuori del monastero e, al tempo dei raccolti, il servizio ai padroni in cambio di una quantità di derrate. 
 Nessun istante della giornata era lasciato all'oziosità. L'abate stesso curava i malati con grande sollecitudine. Il silenzio era rigorosamente osservato da tutti. Per avere quello di cui ognuno aveva bisogno si ricorreva ai segni. Trasferendosi da un posto all'altro i religiosi erano esortati a riflettere su qualche brano della Scrittura. Il lavoro era accompagnato dal canto dei salmi. Alla morte di ogni monaco veniva celebrata la Messa per il riposo eterno della sua anima. Pacomio visitava sovente i monasteri che aveva fondato per vigilare affinchè ovunque fosse osservata la regola.
 Un giorno il cellerario (economo) aveva venduto al mercato qualche stuoia a un prezzo più elevato di quanto gli era stato fissato. Il santo ordinò di restituire i soldi agli acquirenti e lo castigo per la sua avarizia. Un'altra volta un monaco si applicò con tanto impegno nel lavoro da riuscire a tessere due stuoie invece di una. Avendo poi fatto in modo che Pacomio le vedesse, costui si limitò a dire: "Questo fratello si è affannato dal mattino alla sera per lasciare il suo lavoro in balia del demonio". E per guarirlo dalla vanità gl'impose per penitenza di restare cinque mesi nella sua cella senz'altro cibo che un po' di pane, sale e acqua. 
I biografi attribuiscono al santo il dono delle lingue, la guarigione dei malati e la liberazione degli ossessi con l'uso dell'olio benedetto. Sovente diceva agli afflitti che le loro prove, in realtà, erano un tratto della divina bontà a loro riguardo; egli si contentava di pregare per ottenere ad essi forza e coraggio, dal momento che il male non poteva recare pregiudizio alle loro anime. Teodoro (+368), il suo più caro discepolo, che gli successe nel governo dei monasteri, soffriva costantemente di mal di testa. Pacomio rispose un giorno ai monaci che lo supplicavano di guarirlo: "L'astinenza e la preghiera sono sicuramente una sorgente di grandi meriti, ma la malattia sopportata con pazienza è sicuramente di un merito ancora maggiore". Prima di tutto egli chiedeva a Dio la salute spirituale dei suoi discepoli, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per guarire le loro passioni, specialmente quella dell'orgoglio. Pacomio fu pure dotato dello spirito di profezia.
 Annunciò difatti con rammarico ai suoi discepoli che l'Ordine da lui stabilito sarebbe in seguito decaduto dal primitivo fervore. Nel secolo XI scomparve addirittura dopo essere stato isolato geograficamente, psicologicamente e spiritualmente. 
 Pacomio nutrì una grande stima per i vescovi e in modo speciale per S. Atanasio (+373), patriarca di Alessandria d'Egitto, che non disdegnava di andare a visitare nella Tebaide i suoi monaci. I vescovi in genere conservarono amichevoli relazioni con il santo cenobita. Alcuni monasteri egli fondò in seguito alle istanze di alcuni di loro. Serapione, vescovo di Tentiri, lo esortò a costruire una chiesa in un villaggio per i poveri pastori. In essa il santo adempì l'ufficio di lettore. Operò pure numerose conversioni e si oppose vigorosamente agli errori degli ariani. Nonostante le insistenze del suo vescovo, non volle mai ricevere il sacerdozio. Poco prima di morire fu convocato a Latopoli, davanti ad un sinodo di presuli, perché fornisse spiegazioni sulle sue visioni e sui suoi doni. 
 Pacomio due volte all'anno radunava attorno a sé i superiori dei vari monasteri per mantenere in tutti, desta l'idea, che essi formavano una sola famiglia di cui egli si considerava non il dominatore, ma il servo. Dopo la riunione della Pasqua del 346 a Pebu scoppiò la peste che in poco tempo fece più di cento vittime. La più illustre di esse fu Pacomio stesso che morì il 9-5-346, dopo quaranta giorni di atroci sofferenze.
 Temendo che sul luogo della sua sepoltura si costruisse un martyrion, come si usava per i martiri, si fece promettere da Teodoro che non avrebbe lasciato il suo corpo nel luogo in cui sarebbe stato sepolto. Il discepolo tenne fede alla promessa fatta. Nel Martirologio romano la festa di San Pacomio è segnata al 9 maggio. Nei libri liturgici bizantini è segnata al 7.



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